Tuttoscuola: Il Cantiere della didattica

Vita di un’insegnante di sostegno, giornata internazionale dell’educazione. Quando va rivisto il concetto

#giornatainternazionaledelleducazione #tuttodarivedere 

Caro Diario,

vorrei tanto che ci vedessero con occhi diversi lo sai? Vorrei tanto che ci vedessero come alleati, ma non è così e non capisco perché. Dove sbagliamo?

La 3B è una classe di infelici. Io non li conoscevo, li ho visti per la prima volta oggi in una delle famosissime supplenze assegnate ad un docente di sostegno. Ero sull’uscio, immobile, loro seduti sui banchi. Gridavano, sgraziati. Non curanti della mia presenza continuavano a fare quello che forse erano soliti fare: ignorare.

Quando mi trovo classi di questo tipo parlo poco e guardo tanto. Aspetto. Li osservo uno per uno, come fa Luca quando si studia le persone estranee. Funziona sempre. C’è sempre qualcuno nel branco che ci fa caso, qualcuno che si alza, ti dà il buongiorno e si mette seduto al suo banco, cercando di capire cosa pensi.

Il silenzio spiazza, l’assenza di richieste anche. Non sanno mai che fare quando sanno di essere osservati mentre ti mancano di rispetto, mentre fanno qualcosa che riconoscono non essere adeguata al contesto.

“Vi sedete? Dai che se ci mettono un’altra nota, non ci portano in gita” – grida una moretta ai compagni.

Quando mi trovo classi di questo tipo parlo poco e guardo tanto. Aspetto. Seduti ora sono in 10 su 20.

“Daiiiii, state zitti??? “, continua la moretta, agitatissima, che scopro chiamarsi Miriam -“Prof la prego non ci metta la nota”.

Quando mi trovo classi di questo tipo parlo poco e guardo tanto. Aspetto. Seduti ora sono in 17 su 20. In piedi rimangono solo in tre: i machi, ma quando un intero branco è seduto, anche i machi si siedono; almeno a questa età.

“Buongiorno ragazzi, perché dovrei mettervi la nota?” apostrofo con tono ingenuo.

“Perché le note ce le mettono tutti. Siamo la classe con il maggior numero di richiamati e di sospesi” mi dice uno dei machi.

“Io perché sono qui ragazzi?” – “Perché manca la Bianchi” e tutti ridono. “Esattamente – rispondo – Io sono qui per sostituire la collega. La Bianchi, invece, è qui per?” – “La Bianchi è qui per spiegare Manzoni, Leopardi e come dice lei per educarci” spiega Miriam.

“Educare? E che significa?” – “Significa che ci insegna a rispettare le regole, a saperci comportare, ad essere disciplinati – continua l’alunna dai capelli ricci e ribelli – Dai Prof, non faccia la finta tonta, lo sa bene che significa: significa che dobbiamo fare quello che dite voi”.

“Educare perciò significa insegnare ad eseguire ordini?” –  Chiedo ad un ragazzo silenzioso in prima fila. “Sì più o meno” mi risponde.

“Ma quale più o meno, è così. Per andare bene a scuola bisogna fare quello che dite voi prof” grida un biondino alzandosi in piedi, d’impulso.

“Tu come ti chiami?”

“Marco”.

“Vieni Marco, vieni qui”. Prendo l’iPhone, cerco tra i miei iBook e gli dico: “Marco, leggi qui”.

“La parola educazione è, dunque, cruciale, ma come la dobbiamo intendere? J. Maritain ci fornisce una buona indicazione quando afferma che compito dell’educazione è aiutare la persona umana a rispondere al suo principale dovere, che è quello di divenire uomo” (1).

Quello che ci siamo detti dopo è stato un botta e risposta finalizzato a scardinare un pregiudizio sull’educazione e sull’educatore sul quale dovremmo riflettere. Una visione dell’educazione e dell’educatore che per alcuni è tutta da rivedere.

Sara

(1)   I. Fiorin, La sfida dell’insegnamento, Mondadori, 2017

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