Tuttoscuola: Il Cantiere della didattica

Vita di un’insegnante di sostegno: quando penso che qualcosa si deve fare

#GiorniTosti

Caro diario,

scalcio con gli zoccoli infangati sul cancello della staccionata del reale, come un cavallo impazzito. Arranco, ma continuo con quella forza che ti provoca la frustrazione. Questa mattina Luca è arrivato con la mamma e appena mi ha visto si è buttato per terra in corridoio piangendo. Un pianto implorante di quelli che chiedono di essere salvati.

Gli occhi lucidi sono quelli di quando ha un dolore fisico e il 99% delle volte è per il mal di pancia. Ha un graffio sul viso e la mamma mi spiega che è colpa di uno spino di uno ramo che ha preso nel weekend durante una delle sue folli corse in giardino. Cerca di giustificarsi, ma io non riesco a smettere di guardarlo. Mi osserva piangendo come fa ogni qualvolta che ha bisogno di qualcosa di serio. Saluto la mamma e gli chiedo di spiegarsi. 170cm di massa muscolare in strazio. Azzardo a codificare verbalmente quello che esprime con il corpo, ma non si ferma.

“Ok, dimmi cosa vuoi fare”. Mi prende per mano e mi porta in cortile. È in cerca di un rifugio. Prosegue il cammino tenendomi per mano poi si sgancia e corre verso il cancello. Ride. È quel gioco che facevamo quando ci siamo conosciuti. Quando tenerlo in un’aula chiusa era impossibile. Un’utopia. Scappava. Oggi Luca vuole andarsene e allora l’unico modo per concedergli la via di fuga è correre. Correre insieme a lui finché non si stanca. Ho le scarpe comode e i jeans, ma pure col vestitino e gli stivali l’avrei fatto lo stesso. È un suo diritto.

Fuori c’è il sole, ma dentro di lui la tempesta. Non si ferma, si aggrappa al cancello e lo strattona con forza. Piange, ride, corre. Raccoglie il maggior numero di foglie ammassate al lato del giardino e le butta in strada. Lo ammonisco con lo sguardo e ride. Corre di nuovo senza sosta e io lo seguo con lo sguardo. È una fatica immensa, fisica e mentale. Ricomincia a piangere a dirotto e così tenendolo per mano lo riporto al caldo, dove può tranquillizzarsi, ma la furia non si placa. Prende le sedie dallo schienale e le butta per terra. Lo sa che quel rumore mi manda in bestia ed è pericoloso. Prende la sedia dalla gamba di metallo e la butta per terra con tutta la forza che ha. Dio dammi la pazienza. Prende la ricorsa e mi corre incontro, afferra la mia mano e la stringe forte graffiandomi volontariamente. Lo allontano e penso che sia troppo.

Questo è troppo. Ho microcicatrici sulle mani che segnano i nostri incontri. Non è giusto. Basta. Mi allontano e mi metto in disparte. Lascio che siano gli altri ad interagire con lui. Mi guardo il graffio e penso perché sia disposta a tutto questo. È lieve, minuscolo, come gli altri, ma c’è. Con gli zoccoli infangati scalcio sul cancello del reale, come un cavallo impazzito. Penso. Qualcosa si deve fare.

Sara

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