Tuttoscuola: Il Cantiere della didattica

Vita di un’insegnante di sostegno (al tempo del Coronavirus): ecco perché solo ora mi rendo conto che la scuola non è davvero inclusiva

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Caro Diario,

ma forse dovrei scrivere “Caro Babbo Natale, io vorrei la contrattualizzazione di almeno due ore settimanali da dedicare, esclusivamente, alla progettazione didattica condivisa nella scuola secondaria di primo e di secondo grado”.

Ho sognato questa pausa natalizia, come non l’avevo mai sognata. Le restrizioni per contenere la diffusione del COVID-19 sicuramente hanno contribuito molto, ma mai come quest’anno mi sono resa conto di ciò che non rende la scuola italiana, soprattutto la scuola secondaria, inclusiva. 

Sono le 18.30 di un sabato di dicembre, ma potrebbe essere di novembre, settembre. L’iPhone si illumina ed è l’audio del collega di inglese che mi comunica che martedì svolgerà un’attività sugli avverbi di frequenza, affinché io possa strutturare la lezione per Giulio. Il collega non si rende conto che per adattare l’attività io devo avere tempo e capire quali materiali utilizzerà, quale strategia didattica metterà in campo, ma ringrazio il cielo che mi abbia pensato. Il weekend dovrebbe essere sacro, lontano dal lavoro, ma Giulio ha una disabilità intellettiva, che ricade sul linguaggio. Ha difficoltà a individuare gli avverbi di frequenza in italiano, figuriamoci in inglese, e quindi nel PEI, in base al livello di difficoltà dei contenuti disciplinari, si è previsto di procedere per nuclei fondanti o partecipazione al compito. Ora, per fare l’uno o l’altro ho bisogno di capire dove e come il collega intende procedere, ma so che faremo grammatica e non cultura e mi sembra già una conquista; così, nonostante ci si trovi nel weekend, appena posso mi metto davanti al pc, penso allo stile di insegnamento del collega, penso al funzionamento di Giulio, analizzo i materiali del libro e procedo. 

Sono le 20.30 di un mercoledì di dicembre, ma potrebbe essere di novembre, settembre, giugno. L’iPhone si illumina: è il messaggio di Martina, la collega di italiano, che scrive: “Non so se hai letto sul registro elettronico. Venerdì abbiamo fissato il compito in classe”. 

No, il registro elettronico non l’ho visto, vorrei risponderle, almeno, non oggi, perché ho solo nove ore su Alice ed oggi ero alla succursale nella classe di Filippo. Tra l’altro sul registro elettronico segnate il numero delle pagine da studiare e non i contenuti disciplinari e io devo avere il tempo per capire dal registro elettronico su cosa verterà la lezione e/o il compito assegnato, quindi, no, non ho avuto il tempo di leggerlo. Ma non c’é tempo per le polemiche, ho altre sei, sette discipline da gestire e strutturare i mediatori didattici per Amr, studente egiziano, che si è trasferito in Italia pochi mesi fa. “Ok, grazie”, rispondo. “Grazie a te”, conclude lei. 

Mangio, vado a dormire. Il giorno dopo mi sveglio, vado a scuola, rientro e strutturo la verifica, che poi stampo a casa mia, per diversi motivi: perché Alice non sempre porta il pc, perché per stamparla in segreteria avrei dovuto consegnarla quattro giorni fa e perché non posso pretendere che Alice scrivi a mano la traccia. 

Sono le 8.00 di un giovedì mattina e nel corridoio, prima di entrare in classe, incontro Maurizio, collega di Storia. “Hola, come stai?”, gli dico. “Ciao Sara, te l’ha detto Filippo che abbiamo il compito di storia dopo vero?” Vorrei dirgli, “Deve dirmelo Filippo?”, ma rispondo di no. “Tranquilla, sono solo tre domande, le proietto alla lavagna, sono a risposta aperta”. Alle 8.00, quindi, scopro che la struttura della verifica che verrà sottoposta allo studente tra meno di un’ora non è assolutamente adatta al suo funzionamento. Ho appena bevuto il caffè e vorrei sputare fuoco, incenerendo il collega, ma mi limito ad irrigidirmi, a cambiare tono della voce e a chiedere: “Puoi darmi le domande?” Non c’è tempo per polemizzare. Arrivo in classe, mentre i ragazzi si siedono e la collega fa l’appello io ho aperto il mio pc e ho strutturato la prima domanda in due domande a risposta multipla. Inizia la lezione. Filippo mi tempesta di domande, giustamente, a cui rispondo, pur avendo come retropensiero il compito di storia. Si apre un dibattito in classe e io riapro il pc, leggo la seconda domanda e nel file word, la riscrivo con un testo a completamento. Il dibattito prosegue, così, traduco l’ultima domanda in un vero e falso. Rileggo tutto. “Refusi non ce ne sono – mi dico – La grandezza del font è ok, l’interlinea è buona. Bene, è fatta; non posso stamparla, ma amen, igienizzerò il pc e la farà qui”.

Ora, caro Babbo Natale, conta quante discipline di studio ci sono per ogni indirizzo della scuola secondaria di primo e di secondo grado, conta il numero di docenti con cui un/un’ insegnante di sostegno deve interagire,  tieni conto che la progettazione e la costruzione dei materiali e gli adattamenti può iniziare solo quando l’insegnante di sostegno viene messo al corrente dai colleghi di disciplina dell’attività che verrà svolta in classe, a meno che non sia il docente curriculare ad occuparsene. Quindi quando? Quando il collega invia il messaggio, telefona. Alle 18.30 di sabato per il martedì, alle 20.30 di mercoledì per il venerdì, alle 14.30 di lunedì per il mercoledì, giovedì, venerdì ecc., quando cioè il docente curriculare ha il tempo di progettare le tappe su misura della classe del percorso formativo, che ha messo nero su bianco nel documento disciplinare consegnato più o meno a inizio anno. 

Bene, il mio desiderio ora forse appare più chiaro. Il gap tra la scuola inclusiva sulla carta e quella reale è tutta qui: nel tempo dedicato alla progettazione didattica condivisa. Io posso essere flessibile, accogliente, smart e multitasking, ma tra l’essere disponibile e l’essere a disposizione c’è una grande differenza e questa differenza ricade sui ragazzi, quelli con bisogni educativi speciali, a cui serve – a quanto pare – una legge in più per garantire loro il diritto all’apprendimento.

Sara

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