Il learning loss è misurabile ma non valutabile
Sono numerosi gli studi, realizzati soprattutto negli USA, sulla perdita di apprendimento (learning loss) legata alla sospensione della didattica in presenza. Fino all’anno scorso avevano riguardato soprattutto le conseguenze delle vacanze estive o quelle di prolungate assenze degli studenti per malattia o per assenteismo (truancy). Dall’inizio della pandemia essi si sono concentrati sulle conseguenze del lockdown.
Lo strumento principe di queste rilevazioni sono i test di apprendimento, massicciamente impiegati a tutti i livelli di scuola da quando, con l’introduzione della legge di George W. Bush No Child Left Behind (2002), buona parte dei finanziamenti federali agli Stati sono stati legati al miglioramento delle performance degli studenti svantaggiati (neri, ispanici, poveri), da misurare attraverso test.
L’uso dei test come indicatori della qualità dei sistemi educativi, già sperimentato dalla IEA nella seconda metà del Novecento, e poi ripreso su base planetaria dall’OCSE con il programma PISA, è stato sostenuto tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo da noti economisti dell’istruzione come Hanushek, Woessmann, e in modo più problematico Heckman, che hanno stabilito una correlazione diretta tra esito positivo dei test e sviluppo economico, forse sottovalutando l’importanza dei fattori socio-ambientali ma soprattutto riducendo la valutazione alla semplice (per i critici semplicistica) misura quantitativa delle performance nelle competenze di base (lingua materna, matematica, scienze).
È chiaro che con una impostazione di questo genere i risultati degli studenti sono ampiamente correlati alla loro presenza in classe, e che gli effetti del lockdown non possono che essere tanto più negativi quanto più è durata l’assenza, sia essa dovuta a una scelta (truancy) sia a una necessità (impossibilità di fruire della DaD per mancanza di collegamento o di devices funzionanti).
Certo, ha ragione l’Invalsi a chiedere di poter effettuare prove di misurazione dei livelli di apprendimento degli studenti in modo da “disporre di dati certi per definire quali sono i costi educativi del Covid-19”, come si legge nel sito Invalsiopen. Ma la misurazione delle performance, anche se può fornire importanti dati di base utili ad “avere una dimensione del fenomeno e progettare piani didattici di contrasto, tenendo conto dei singoli contesti scolastici e delle caratteristiche dei territori”, non potrà che fotografare e confermare in termini quantitativi ciò che è già evidente.
Senza addentrarci troppo sul piano tecnico in questa sede, ci chiediamo a questo punto perché i piani didattici di contrasto dovrebbero limitarsi, semplificando, a recuperare il learning loss che emergerà dai test riguardanti le performance misurate, e non prendere in considerazione tutte quelle competenze non misurabili (ma valutabili, direbbe Visalberghi) che riguardano la resilienza, la capacità di affrontare l’imprevisto, l’uso creativo delle conoscenze, la disponibilità ad interagire, che la pur tormentata vicenda della DaD ha messo in luce e che secondo noi occorre valorizzare con un nuovo approccio didattico, ibrido, personalizzato e digitale, rinunciando all’idea di rattoppare l’abito ormai consunto della vecchia scuola.
Per approfondimenti: Pandemia e DaD: tra difficoltà di apprendimento e divari sociali ed educativi. Il prezzo pagato dalle nuove generazioni
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