Azzolina e la scuola Cenerentola. Quel passaggio stretto per un lieto fine

Bisogna fare i conti con una società che sta cambiando. Servono una visione strategica sul modello educativo da adottare, con il coraggio di cambiare paradigma, e un grande piano pluriennale per la scuola, che la ponga al centro delle priorità del paese.
Le sfide del neo ministro Azzolina e della scuola italiana.

Di “Scuola Cenerentola” – per il ruolo a cui è stata degradata nel nostro paese – aveva parlato Tuttoscuola a caldo, subito dopo le dimissioni natalizie del ministro Lorenzo Fioramonti. E “La Scuola Cenerentola” è il titolo dell’editoriale del Corriere della Sera del 28 dicembre, scritto subito prima della indicazione di nomina (che dovrà essere proposta al Presidente della Repubblica per approvazione) di Lucia Azzolina a ministro “della scuola”, come ha specificato il premier Giuseppe Conte nel dare la notizia del nuovo sdoppiamento del Miur, e di Gaetano Manfredi a ministro dell’Università e Ricerca (quarto rettore in otto anni, dopo Profumo, Carrozza e Giannini, sia pure per la sola componente universitaria del Miur).

Sono buone notizie per la scuola italiana? Non dipende solo dalle qualità delle persone coinvolte, includendo la squadra che la ministra designata dovrà rapidamente formare, a partire dalle numerose posizioni apicali a Viale Trastevere e in cruciali Regioni attualmente sguarnite, che rendono la complessa e mastodontica macchina amministrativa ministeriale pericolosamente acefala.

Di certo la deputata M5S ha dalla sua, almeno sulla carta, la competenza tecnica e conosce la scuola non per i ricordi di studentessa ma per averci lavorato come insegnante fino a meno di due anni fa (ed è pronta a tornarci quando lascerà gli incarichi politici, vedendo nell’educazione il suo futuro professionale). La Azzolina, 37 anni, ha due lauree, una specializzazione nel sostegno, si è preparata con successo all’impegnativo concorso per dirigenti scolastici, ha maturato un’esperienza da sindacalista nel settore, si è occupata di scuola come parlamentare e ha avuto modo di conoscere in questi mesi i dispersivi meandri del Palazzo della Minerva. Sa di cosa parla. Tutto questo basta? No. Occorrono altre indispensabili doti, di visione, di gestione, di leadership (anche educativa: la si richiede a chi guida una scuola, figurarsi a chi ha il gravoso compito di guidare la Scuola). Dovrà dimostrarle sul campo.

Ma questa nomina sarà veramente una buona notizia solo se Cenerentola incontrerà un Principe azzurro dotato di adeguate risorse economiche e della volontà di fare un investimento di medio-lungo periodo (15-20 anni) sulla scuola, come Tuttoscuola chiede da anni. Altrimenti lo sdoppiamento del Miur sarà una buona notizia (forse) solo per Università e ricerca, che comparativamente costano assai meno della scuola ma pesano molto di più a livello politico e parlamentare, oltre a rappresentare un rischio di accentuare l’autoreferenzialità dei sistemi formativi, come è stato giustamente notato.

Serve una visione strategica sul modello educativo da adottare. Servono idee ed ingredienti sui quali in tanti concordano, fuori (soprattutto) e dentro alla scuola (almeno tra la fascia più trainante degli operatori). Si discuta su come miscelarli, sul giusto dosaggio, ma non si tenti con un’ottica di retroguardia di lasciarli ancora fuori dalla ricetta della scuola che sogniamo. Elenchiamo i principali fattori, le facce della stella polare a nostro avviso da seguire.

Qualità del servizio, centralità degli studenti, rigenerazione dell’alleanza educativa, formazione mirata e rigoroso reclutamento (attraverso concorsi) di professionisti a tutto tondo dell’educazione, lasciando – come ha sostenuto il direttore della Fondazione Agnelli Andrea Gavosto – “una voce in capitolo dei singoli istituti scolastici nella scelta di chi serve loro davvero”. Come nella quasi totalità delle professioni, e come avviene in molte scuole anche statali in tutto il mondo. E poi spazio alla valorizzazione dei docenti anche attraverso un percorso professionale che consenta a chi: è ben formato, si aggiorna (ed è un obbligo, che va regolamentato) e vuole dare di più, di farlo (essendo riconosciuto e non sfruttato). Stop quindi all’egualitarismo assoluto che fa parti uguali tra diversi (che ha protetto molto più chi aveva poca voglia di fare rispetto a chi ne aveva molta), riconoscendo che un contesto articolato e complesso come questo – composto da oltre un milione di persone – ha bisogno di figure docenti con profili diversificati. Diversificati anche nel tempo per una singola persona, che in trenta o quarant’anni di carriera può beneficiare di un’evoluzione professionale. Occorre dare valore a ruoli chiave come quelli di staff, di specialisti, di mentori e di tutor (ce ne è un gran bisogno), e spazio a modelli organizzativi a leadership distribuita in cui si lavora per team integrati. Il modello statalista accentrato, sulla carta uguale per tutti, ha prodotto anche negli esiti formativi un sistema inefficiente: la scuola italiana – con gli elevatissimi tassi di abbandono, con le drammatiche differenze sul territorio – è estremamente iniqua e non svolge, se non in minimi termini, il ruolo di ascensore sociale.

Va preso atto che il modello scolastico italiano, progettato per traghettare una società semianalfabeta verso l’era industriale attraverso un sapere trasmissivo, aule e libri, è in forte difficoltà. Va ri-progettato.

Siamo nel mezzo della ‘quarta rivoluzione’: come sostiene Luciano Floridi, professore di filosofia ed etica dell’informazione a Oxford, siamo entrati nell’infosfera: non esiste più una distinzione tra vita online e offline. Ciò ha un impatto sulle modalità di apprendimento e quindi di insegnamento. Oggi le neuroscienze e le scienze cognitive svelano meccanismi dell’apprendimento finora ignoti, l’intelligenza artificiale fissa nuovi limiti nella conoscenza, i nativi digitali apprendono – nel bene e nel male – in forme, con strumenti e in luoghi in larga parte diversi da quelli della scuola. La tecnologia ci sta cambiando fisicamente. Una delle prime conseguenze è che la scuola si ritrova ad avere a che fare con studenti dalla soglia di attenzione sempre più bassa e dalla sempre minore capacità di comprendere pensieri complessi. Studi recenti dimostrano che la nostra attenzione è più bassa di quella di un pesce rosso (otto secondi la nostra, nove la sua).

Si tratta di processi destinati ad accelerare e ad ampliare dunque pericolosamente il già evidente disallineamento rispetto al semi-immobile ecosistema scuola. Che contrappone un modello organizzativo arcaico, ingessato e burocratico, con un armamentario vecchio di quaranta o cinquant’anni: gli spezzoni di cattedra, i gradoni stipendiali uguali per tutti, le assegnazioni provvisorie, e così via. Meccanismi pensati per tutelare i lavoratori della scuola, che in realtà ne diventano vittime, quasi come i loro studenti che ogni anno assistono sconsolatamente al carosello dei docenti. Dispositivi tipici di “un’organizzazione tayloristica, ripetitiva e uniforme nel tempo” (definizione di Treellle), che paradossalmente non controlla (si veda la mancanza di Ispettori, anche per questo è importante il concorso previsto dal Decreto Scuola), non si misura e anzi mette in discussione il sistema di valutazione (eppure, “prima conoscere, poi discutere, poi deliberare”, scriveva Luigi Einaudi nelle sue “Prediche inutili”). La ripartizione di competenze è così variegata e dispersa tra i vari Organi collegiali e non, che in una scuola servono tutti o quasi per fare qualcosa, basta uno o pochi per interdire quasi qualunque cosa. I dirigenti scolastici devono dedicare gran parte del loro tempo all’edilizia scolastica, a contenziosi giurisprudenziali e giuslavoristici e ad adempimenti burocratici vari, attenti a non incorrere in guai giudiziari, anche di carattere penale, per i quali dovrebbero difendersi da soli. Impegni che sottraggono spazio all’esercizio dell’indispensabile leadership educativa che a loro si richiede. Di nuovo rispetto al passato, infatti, c’è il dilagare del contenzioso scuola-famiglia (che ha mandato in pezzi il patto educativo) e di quello amministrazione scolastica-personale, e poi le sentenze dei Tar che di fatto dettano legge, più che farla applicare.

L’elenco degli ingredienti per far scattare la scintilla del sapere si allunga. Ma se vogliamo prendere di petto la questione occorre inquadrarla a 360 gradi. E allora sono indispensabili ulteriori ingredienti, una sorta di lievito madre: l’innovazione didattica, che dia spazio alle grandi competenze che ci sono nella scuola; l’inclusione, ma vera, non solo a parole: ci vantiamo di avere la scuola più inclusiva d’Europa, ma negli ultimi vent’anni abbiamo escluso 3 milioni e mezzo di studenti, che non hanno completato gli studi secondari, su 11 che si sono presentati ai nastri di partenza della scuola statale; garantiamo un docente di sostegno ogni 1,56 alunni con disabilità, ma poi due docenti su cinque sono precari, spesso non adeguatamente formati né motivati e cambiano scuola e alunni pressoché ogni anno.

E’ necessario il coraggio di cambiare paradigma e prospettiva, di passare da una scuola che boccia se non si raggiunge un certo standard in tutte le materie a una scuola su misura, basata sulla personalizzazione dei piani di studio, con una didattica individualizzata, flessibile. Una scuola – riportiamo un estratto del Manifesto sulla scuola che sogniamo – “che valorizzi le attitudini e le potenzialità di ognuno, che abbracci le diversità e sappia riconoscere la multiformità delle intelligenze, capace di suscitare stupore, di generare ricerca. Una scuola che introduca ai tanti linguaggi del sapere, capace di educare alla bellezza, all’arte, alla musica. Una scuola con il cuore verde, che porti a prendersi cura dell’ambiente. Una scuola nella quale ci sia posto per una tecnologia amica, che renda l’ambiente di apprendimento più stimolante per tutti. Una scuola del noi, dove si impara insieme, collaborando, condividendo, basata sul dialogo e sulla fiducia. Una scuola aperta, connessa con il mondo del lavoro, che aiuti a portare oltre l’aula quanto in aula si apprende, ma anche il contrario: che porti dentro l’aula le esperienze e gli apprendimenti che si possono realizzare in altri contesti, di lavoro, di volontariato, di sport. Una scuola che è dentro la propria comunità come luogo centrale, che nutre le radici della memoria e incoraggia all’avventura del futuro”.

Come quella raccontata, appunto, nel viaggio sulla scuola che sogniamo (e che in parte già esiste), cominciato da Tuttoscuola alla scoperta delle tante potenzialità che si nascondono (è il caso purtroppo di usare questa espressione) nelle scuole all’ombra dei mille campanili d’Italia.

Attenzione: non è un problema di questo o quel governo, la questione è planetaria: la globalizzazione delle economie, la diffusione delle nuove tecnologie, lo sviluppo delle scienze cognitive, richiedono lo spostamento del baricentro dei sistemi educativi e delle relative politiche, dal governo dell’offerta (cioè apparati organizzativi più o meno accentrati, programmi standardizzati o comunque definiti centralmente, accento su chi insegna) a quello della domanda espressa dai destinatari finali, gli studenti e il mondo produttivo (quindi accento su chi apprende, modello organizzativo più flessibile, personalizzazione, soft skills come la capacità di apprendere e collaborare, la creatività ecc.). Il tema non può essere eluso, per quanto sia oggettivamente difficile spostare la traiettoria del treno in corsa.

La scuola italiana – non lo si sottovaluti – dispone di un capitale investito di inestimabile valore, rappresentato dalla capillare rete degli edifici scolastici, dalle loro dotazioni e soprattutto dall’organico (circa un milione di persone, nella maggior parte dei casi altamente qualificate: un esercito così potrebbe spostare montagne, se adeguatamente indirizzato e motivato).

Si potrebbe utilizzare meglio questa ricchezza, offrendo servizi aggiuntivi utili alla comunità. Ma il sistema di regole e consuetudini sul quale è stato costruito impedisce di valorizzare al meglio questa straordinaria ricchezza strumentale e di intelligenza, al di là degli sforzi, resi all’interno di un sistema inefficiente, da parte degli attori della scuola. Facciamolo.

Per le ragioni esposte non è rimandabile un piano pluriennale che ammoderni questa grande infrastruttura della conoscenza come quello che servirebbe per le infrastrutture fisiche, con soluzioni a geografia e geometria variabile. Insomma ci vorrebbe un “Piano strategico per la scuola”, come l’Italia non ha mai avuto, il più possibile condiviso sul piano sociale e politico, volto a rinnovare la scuola mettendola al passo delle sfide che porrà l’epoca che ci apprestiamo a vivere, per trasformarla nel volano che può rilanciare il paese. Una testata come Tuttoscuola – che si è data il motto “Più istruzione è la soluzione” – ha la sua ragione di vita in questo.

Servirebbero molte risorse, non c’è dubbio. Ma a ben vedere basterebbe mantenere l’incidenza della spesa per l’istruzione sul totale della spesa pubblica ai livelli attuali, invece di continuare ad abbassarla. La “riduzione di taglia” a cui è avviato il sistema formativo italiano per effetto del calo demografico offre questa opportunità. Prevenire è meglio che curare. Sono le politiche lungimiranti che possono unire il paese, ancora di più in una fase così critica e insondabile.

Insomma non è tanto un problema di risorse, quanto e prima ancora di consapevolezza e di lucida determinazione da parte della classe dirigente e politica del nostro Paese.

Tornando al passaggio di consegne in vista al ministero dell’istruzione, l’impegno che attende Azzolina è dunque immane. A differenza ad esempio di un predecessore già insegnante divenuto prima sottosegretario e poi ministro, Franca Falcucci, la quale fece leva sul suo prestigio politico all’interno della DC, a quel tempo (1983-1987) partito egemone all’interno della coalizione di centro-sinistra, non ha una lunga esperienza e neanche ancora un significativo peso politico, ed è esponente di un movimento come i ‘Cinque Stelle’ che sta vivendo una profonda crisi di identità. Certo non può affrontare e risolvere da sola questi problemi, ma è questo lo scenario in cui si colloca la sua azione. Già l’elenco delle cose da fare per l’ordinaria amministrazione, ricordato da Tuttoscuola, è ponderoso. Per tutto il resto sopra descritto non basterebbe neanche l’impegno di un intero governo, ove mai la attuale litigiosa compagine sapesse esprimerlo coralmente. E né il premier Conte né il ministro dell’economia Gualtieri sembrano avere le fattezze del Principe azzurro.

Il passaggio per un lieto fine insomma è molto stretto, ma sempre possibile. C’è bisogno del coinvolgimento del sistema-paese: quando si diffonderà questa consapevolezza? E’ vero, nell’Italia di oggi sembra difficile, ci vorrebbe una fatina. Ma non è un motivo per non battersi. E non si può che augurare alla ministra designata, e ancor più alla scuola italiana, di non restare Cenerentola per sempre.