Scuola e mercato/4. Resta l’impianto tradizionale

La questione sembra in realtà più complessa se si tiene conto del fatto che la licealizzazione dell’istruzione tecnica, portata avanti con molte contraddizioni sia dal centro-sinistra (legge n. 30/2000, Berlinguer) sia dal centro-destra (legge n. 53/2003, Moratti) non ne aveva in realtà alterato le caratteristiche strutturali (piani di studio, profili), confermate peraltro anche nell’ambito della operazione di rilancio avviata dal governo Prodi e proseguita dall’attuale ministro Gelmini.

Se malgrado tutti gli sforzi di arrestarlo, fatti per vie diverse negli ultimi dieci anni, il declino dell’istruzione tecnica è proseguito, si deve pensare che ci sia qualcosa di inadeguato proprio nell’impianto strutturale.

Lo intuì la commissione Brocca agli inizi degli anni novanta dello scorso secolo, quando propose di irrobustire la formazione generale in non più di una decina di indirizzi tecnici, compreso lo scientifico-tecnologico, rinviando quella specialistica ad appositi percorsi post-secondari di istruzione tecnica superiore o all’università.

Ma la strada intrapresa successivamente, anche per impulso di una Confindustria che non ha saputo elaborare il lutto per la scomparsa dei vecchi periti e ragionieri, è stata un’altra: quella di tentare di fermare il processo di tendenziale despecializzazione dell’istruzione tecnica, e in generale di quella secondaria che è in corso in tutto il mondo, insistendo per il mantenimento di insegnamenti specialistici di settore in ben 25 tra indirizzi e “articolazioni”, come stabilisce il nuovo regolamento Gelmini dell’istruzione tecnica. Un’operazione che finora non ha convinto le famiglie e non ha arrestato la grande fuga verso i licei, visto che la prospettiva più verosimile per gran parte dei diplomati, anche di quelli tecnici, è di continuare gli studi, e  che il lavoro, se lo si trova, non è quasi mai legato al titolo di studio posseduto.