Professioni pedagogiche ed educative, il riconoscimento giuridico

di Gian Carlo Sacchi*

Fino a non molto tempo fa il lavoro educativo e di cura era svolto da soggetti partecipanti, anche a titolo volontario, ad un progetto perlopiù associativo la cui forte identità faceva aggio sulla professionalità; con l’aumentare della domanda di servizi, soprattutto nel settore pubblico, e con le politiche di welfare delegate alle Regioni, gradualmente si pose il problema di un riconoscimento giuridico di tale professione e di una conseguente preparazione, iniziata con corsi gestiti dalle regioni stesse e proseguita con un titolo universitario di educatore professionale, rilasciato dalle facoltà di scienza della formazione.

Fu compiuto un notevole sforzo per radunare sotto un unico profilo professionale le diverse tipologie di attività previste in un vasto settore che va dall’infanzia alla terza età, alle persone fragili, cercando di creare collegamenti con l’ambito socio-sanitario, le attività di insegnamento nella scuola, nonché il riconoscimento in sede europea.

Il carisma degli enti educativi e assistenziali però è diminuito, mentre è aumentato l’intervento delle istituzioni pubbliche, regionali e locali, dove, al contrario, si è optato più che per l’appartenenza a realtà che facevano leva su aspetti vocazionali, per le competenze certificate da un titolo di studio universitario che preludeva a contratti di lavoro o alla libera professione.

E’ ormai da diversi anni che si tenta di regolamentare tali attività, a partire da accordi tra regioni e università, per proseguire con l’istituzionalizzazione del segmento educativo 0-6 anni con i relativi operatori, dirimere l’annosa questione della separazione di queste figure tra l’ambito socio-educativo e quello sanitario-assistenziale, per giungere al riconoscimento del settore pedagogico in quanto ordine professionale, con i relativi albi, degli educatori professionali socio-pedagogici e dei pedagogisti.

Analogamente a quanto avvenuto per lo psicologo anche il pedagogista è definito dalla recente legge n. 55 del 15/4/2024 come lo specialista dei processi educativi, che opera con autonomia scientifica e responsabilità deontologica per tutti gli interventi in campo pedagogico, educativo e formativo sui bisogni manifestati dal bambino e dall’adulto nei processi di apprendimento lungo tutto il corso della vita. Il pedagogista è un professionista di livello apicale, la sua attività può essere svolta in forma autonoma o di lavoro subordinato, con implicazioni di carattere didattico, di ricerca e sperimentazione.

Per esercitare tale professione è necessario il possesso di una laurea magistrale o specialistica in diversi settori: servizi educativi, educazione degli adulti, teorie e metodologie dell’e-learning, nonché la laurea in scienze dell’educazione o pedagogia rilasciata secondo un precedente ordinamento.

L’educatore professionale socio-pedagogico è invece un professionista operativo di livello intermedio, che mette in atto progetti e servizi educativi e formativi, definendo interventi anche in collaborazione con altre agenzie educative. Può operare in strutture pubbliche o private e può svolgere attività didattica e di sperimentazione nello specifico ambito professionale, anch’esso in forma autonoma o di lavoro subordinato. Il requisito di accesso è una laurea triennale con l’accertamento delle competenze professionali acquisite con il tirocinio.

Per ciascuno di questi livelli è previsto un albo professionale, che culminerà nell’Ordine delle professioni pedagogiche ed educative, articolato su base regionale. 

In tal modo viene stabilizzato il quadro giuridico, ma non si può non notare una situazione di debolezza complessiva, che fatto salvi i titoli spendibili nelle università e nelle scuole, si tratta di un settore nel quale gli investimenti hanno un aspetto alquanto altalenante. Sia i fondi pubblici, statali o regionali, spesso non riescono a coprire il fabbisogno, sia quelli privati vanno in genere a carico delle famiglie dei partecipanti ai servizi, che a loro volta ricorrono al welfare sempre meno presente o sostituito da uno saltuario aziendale.

 Sebbene la domanda sia vivace e sostenuta da importanti obiettivi sul piano pedagogico-didattico, nonché utile alla conciliazione dei tempi di lavoro delle famiglie, si ricorre  a forme di appalto ad enti del terzo settore, i quali assumono gli educatori con contratti spesso precari e con salari bassi, per un personale al quale è richiesto il titolo di laurea, tenuto conto che anche sul piano della libera professione non si può pensare ad un grande sviluppo, il che potrebbe essere soprattutto la causa della diminuzione delle iscrizioni ai corsi universitari specifici.

Bisognerebbe arrivare ad un organico statale, come auspicato dal nuovo percorso 0-6 (poli per l’infanzia), distribuito sul territorio con l’intervento delle regioni, per dare stabilità al servizio, invece sta succedendo sempre di più il contrario con il diffondersi delle pluriclassi nella scuola primaria e sezioni ad orario parziale in quella dell’infanzia, soprattutto nelle zone periferiche e più disagiate, e quindi si attende l’intervento delle stesse regioni per ripristinare il curricolo e migliorare le relazioni tra i gruppi di alunni ed i plessi scolastici spesso isolati, con finanziamenti aggiuntivi per progetti integrati con educatori del terzo settore.

I contratti degli enti territoriali non sono più possibili per mancanza di fondi, quelli del terzo settore non bastano per soddisfare gli aspiranti educatori, fatto sta che c’è carenza di offerta con il titolo adeguato, mentre si torna ad avere come in passato richieste con le più disparate esperienze professionali, che però mettono a rischio il riconoscimento delle imprese del terzo settore da parte degli enti locali. E questo si nota non solo nelle grandi città dove si formano liste di attesa, ma soprattutto nelle aree interne e di montagna dove non si trovano educatori disponibili a raggiungere località disagiate o venendo a gravare ancora sui bilanci familiari.

Saranno solo le condizioni economico-giuridiche a far lanciare alle organizzazioni no profit ed agli amministratori pubblici un grido d’allarme presagendo l’implosione del sistema dato l’aumento dei vuoti di educatori, oppure si tratta di abbandono dell’investimento sul lavoro di cura che in passato aveva visto un maggiore impegno culturale e sociale e che oggi sembra non essere più appetibile da parte dei giovani circa il loro futuro professionale, a cominciare dal percorso universitario?

C’è chi si lamenta che gli atenei sono molto teorici e non preparano al lavoro sul campo; le ore di tirocinio sono insufficienti, e poi per il lavoro di educatore occorre motivazione, non finisce con le ore di servizio: ci si deve mettere in gioco nella relazione e molti non sono disponibili.

E’ ormai opinione comune che i ragazzi abbiano sempre più bisogno di educatori sul territorio, senza entrare in collisione con gli psicologi e per occupare gli spazi del non formale, del prescolastico, o più in generale sul fronte del disagio giovanile che va ampliandosi, in aiuto alle famiglie e alle scuole, ma gli educatori non si trovano e quindi il servizio rischia di chiudere.   

*Esperto di politiche formative

© RIPRODUZIONE RISERVATA