Non di solo merito vive la scuola

di Luciano Benadusi* e Orazio Giancola*

La decisione del governo Meloni e del ministro Valditara di modificare la denominazione del Ministero dell’Istruzione con l’inattesa aggiunta delle parole “e del Merito” ha dato il via a un ampio dibattito, centrato soprattutto sul significato di questo termine, a lungo studiato e discusso da pedagogisti e sociologi. Si tratta di un dibattito importante su una espressione controversa, come subito evidenziato da Tuttoscuola, nel quale sono intervenuti nei giorni scorsi autorevoli editorialisti ed esperti come Ernesto Galli della Loggia, Pietro Ichino, Luca Ricolfi, Giorgio Chiosso e altri. Sul tema pubblichiamo qui di seguito il puntuale contributo di analisi concettuale e approfondimento critico inviatoci da Luciano Benadusi e Orazio Giancola, autori della più recente e aggiornata ricerca in materia, Equità e merito nella scuola(2021), che ringraziamo per la loro disponibilità e l’attenzione riservata alla nostra testata.    

Il primo gesto compiuto dal nuovo governo sulla scuola è stato il cambiamento del nome del Ministero dell’Istruzione aggiungendovi “e del Merito”. Una scelta chiaramente identitaria e assai criticata per varie ragioni, alcune buone altre meno. Portare il discorso politico in materia di educazione sui valori e sui principi è una scelta giusta perché qui entra in gioco più di quanto avvenga per altre tematiche la dimensione valoriale, di solito invece trascurata. Non fosse che in questo caso la scelta è stata effettuata in modo monistico evocando un unico valore di riferimento, per l’appunto il merito. Già un secolo fa Weber aveva notato come nelle società contemporanee si era verificato un passaggio di grande rilievo storico: dal “monoteismo” al “politeismo” dei valori. Sembra invece che nel cielo della scuola di Valditara il merito sia l’unica stella a brillare, o almeno la più luminosa tanto da poter essere indicata come parte per il tutto. Senza tenere conto che merito e meritocrazia sono a loro volta concetti plurali, dato che presentano una grande varietà di significati e di declinazioni. Nel nostro libro intitolato Equità e merito (2022) avevamo impiegato il termine equità in una prospettiva pluralistica, per designare una gamma di principi-valori che hanno ai suoi poli l’eguaglianza e il merito. Principi che possono anche essere combinati e il cui ordine di priorità variare caso per caso.

Citare solo il merito significa relegare in secondo piano l’eguaglianza e fornire così una giustificazione più ampia alle diseguaglianze. Il contrario della nostra costituzione che include l’eguaglianza tra i principi generali (art.3) mentre parla del merito molto più avanti in una norma specifica sull’istruzione (l’art. 34), e solo nell’accezione di eguaglianza delle opportunità (in breve EO), ossia della declinazione egualitaria del principio del merito. A dimostrazione della maggiore importanza ed estensione attribuite al principio egualitario rispetto a quello meritocratico. Nelle argomentazioni a favore della ridenominazione che lo stesso ministro e altri commentatori hanno portato la priorità è capovolta: il merito diventa un principio generale e l’eguaglianza si esaurisce per intero nella sua versione meritocratica perché considerata risolutiva: “Il talento è un dono: premiandolo si sconfigge il classismo” (Ricolfi, La Repubblica, 27 ottobre, 2022).

 Nei fatti la questione è molto più complessa, vediamo perché. Eguaglianza delle opportunità significa concepire la scuola come l’arena di una serie di gare per il successo, basate sul talento e sull’impegno dei partecipanti – così Rawls, il maggiore filosofo della giustizia contemporaneo, e così anche il sociologo Young, l’inventore del termine meritocrazia – ma senza alcuna influenza dell’origine socio-familiare degli studenti. Senza avere parificato i punti di partenza il risultato della gara sarebbe falsato e iniquo. Abbiamo così distinto una “meritocrazia pura” da una “meritocrazia spuria”. Le ricerche empiriche ci narrano però che non esiste paese al mondo ove l’influenza delle origini sociali sia stata davvero azzerata; la “meritocrazia reale” rimane sempre (più o meno) spuria. Perché? Dipende solo dal lassismo dei sistemi scolastici che non sollecitano abbastanza l’impegno degli studenti tramite premi e sanzioni?  Ma la didattica meritocratica del bastone e della carota ci regalerebbe davvero le pari opportunità? Ne dubitiamo perché, come ci mostrano molte ricerche, l’origine socio-familiare degli studenti (mediamente) non influisce solo sui risultati ma anche sull’impegno, cioè sulla motivazione a studiare e prolungare gli studi fino ai livelli più alti dell’istruzione. E le borse di studio non bastano da sole a cambiare la struttura delle motivazioni.

Nemmeno il talento è immune dall’influenza dell’origine sociale. La paura della mobilità sociale discendente delle classi superiori conta di più delle aspirazioni ad una mobilità ascendente a medio-lungo raggio delle classi inferiori (anche in ragione del calcolo del rischio di insuccesso).  Inoltre, non mancano evidenze empiriche che la distribuzione genetica dei talenti non sia affatto casuale, diversamente da ciò che asserisce Ricolfi. Ad esempio, una recente ricerca inglese (Crapohi, PNAS, n.14, 2022) ha rilevato quanto il successo scolastico degli studenti (all’esame GCSE) riflette in modo considerevole l’intelligenza (misurata tramite opportuni test) e alcuni tratti della personalità dei genitori. D’altra parte, per avere una misura del talento e delle disposizioni dell’individuo al netto dell’influsso dell’ambiente sociale (i genotipi) occorrerebbe ottenerla alla nascita (se non addirittura prima), cosa impossibile. Infine, Rawls, pur avendo inserito la EO tra le sue fondamentali regole di giustizia, aveva riconosciuto in essa altri due difetti sostanziali. 1) Alla luce del principio di responsabilità, l’ereditarietà genetica del talento non è meno immeritata dell’ereditarietà sociale. 2) L’EO è una meta conseguibile solo in misura parziale. Per realizzarla fino in fondo occorrerebbe infatti ledere il diritto dei genitori di assicurare ai figli il massimo delle opportunità educative e sociali. Tanto è vero che Platone, l’inventore tutt’altro che liberale della EO, proponeva di sottrarli precocemente al loro controllo e affidarli alle cure della repubblica. Consapevole di tali limiti, alla EO, definita “eguaglianza liberale delle opportunità”, Rawls ne aveva affiancata un’altra, definita “democratica”, basata sulla redistribuzione dei redditi e della ricchezza a vantaggio degli svantaggiati. Che significa premiare sì il merito ma non come fonte di un diritto morale dell’individuo bensì come un incentivo ad impegnarsi per la crescita e il benessere della società in modo che tutti ne godano i frutti, a cominciare dai più deboli. Un indirizzo impraticabile in una società meritocratica iper-competitiva dove la stessa scuola funziona come una Olimpiade individualistica del merito, premia i vincitori e si disinteressa dei perdenti o peggio li esclude. Per converso occorrerebbe assecondare lo sviluppo di habitus comunitari, cooperativi e solidaristici.

Concludendo, non condividiamo la riduzione del principio di eguaglianza alla sola EO, la sua versione meritocratica. Ma nemmeno il rifiuto aprioristico del principio del merito, che andrebbe al contrario alimentato per combattere privilegi, pregiudizi e inefficienze presenti anche nel mondo scolastico. Nel nostro libro oltre che ribadire l’importanza della EO in entrambe le declinazioni di Rawls, abbiamo caldeggiato altre due nozioni dell’eguaglianza nella scuola: quella “dei risultati fondamentali in funzione della inclusione” (la soglia minima della carriera scolastica degli studenti e dell’apprendimento delle competenze di base) e quella della “eguale dignità” (principio del rispetto).

Eguaglianza e merito non sono sempre inconciliabili, dipende dai contesti. Per parlare non più di studenti bensì di insegnanti, ispirandoci al criterio del merito come incentivazione ha senso strutturare una carriera di tipo selettivo premiando chi ha acquisito maggiori competenze e può esercitare in modo efficace ruoli più complessi, ad esempio insegnare nelle scuole “difficili” dove si decide la lotta contro la povertà educativa e i divari sociali e territoriali. Definire perciò un preciso ed univoco percorso di formazione, ingresso e avanzamento in questa fondamentale carriera professionale. Ma nel contempo, ispirandoci al criterio dell’eguaglianza si rende necessario innalzare gradualmente le retribuzioni dell’intera categoria per portarle ai livelli degli altri grandi paesi europei.

*Università di Roma La Sapienza

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