La scuola dopo il referendum: perché il no tocca anche la Buona Scuola

Secondo molti commentatori il no alla riforma della Costituzione targata Renzi-Boschi non ha riguardato tanto il merito di quella riforma (superamento del bicameralismo perfetto, riordino del rapporto tra Stato e Regioni, CNEL…) quanto il metodo: l’aver imposto quel modello facendo leva, soprattutto alla Camera, su una maggioranza parlamentare ‘drogata’ dalla legge elettorale, senza aver cercato un consenso più largo. E aver dato l’impressione di voler fare di quel metodo una filosofia di governo, fondata sul primato della decisione rispetto alla mediazione e alla partecipazione.

Se fosse prevalso il sì, anche riforme decisioniste (nel senso di realizzate senza cercare il consenso di importanti ‘corpi intermedi’ come i sindacati) come quelle della Buona Scuola e del Jobs Act sarebbero state avallate da un voto popolare ad alta partecipazione come quello referendario, ponendo rimedio al deficit di legittimazione democratica di un governo, come quello guidato da Renzi, che aveva potuto fruire in Parlamento del superpremio di maggioranza previsto dal ‘Porcellum’. Il successo del sì avrebbe posto le premesse per una legge elettorale che avrebbe consentito alla maggioranza ‘drogata’ di diventare con la nuova legislatura una maggioranza normale, e di gestire con tranquillità le citate riforme decisioniste.

Il netto successo del no ha rimesso invece in qualche modo in discussione quelle riforme: non, ovviamente, sotto il profilo della loro legittimità formale, perché si tratta pur sempre di leggi approvate dal Parlamento e pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale, ma dal punto di vista della loro implementazione e gestione, che presenta ampi margini di interpretazione, come mostrano bene i molti Decreti legislativi previsti dalla legge 107/2015.

Dietro la scelta del nuovo premier Gentiloni (nonché di Matteo Renzi in qualità di segretario del PD) di sostituire il ministro dell’istruzione Giannini con una ex sindacalista di punta come Valeria Fedeli si intravede l’intenzione di aprire quel dialogo con i sindacati (con tutto ciò che ne consegue) che la linea di disintermediazione decisionista finora perseguita aveva reso impraticabile.