Inclusione: a scuola si fa a ‘rendimento’ zero?

Includere è diventato un verbo divisivo in politica e nella scuola. Chi ne valorizza il significato viene normalmente iscritto negli elenchi delle persone progressiste e illuminate. Coloro invece che criticano il concetto o esprimono riserve sul suo valore assoluto, sono spesso collocati fra le schiere dei conservatori se non proprio dei retrogradi della comunità. Di inclusione abbiamo parlato nell’ultimo numero di Tuttoscuola in un articolo di Enzo Martinelli, e direttore generale Miur.

Clicca qui e scopri l’ultimo numero di Tuttoscuola

Le vie di mezzo nelle regioni italiche, che si sono da secoli divise fra guelfi e ghibellini, sono raramente praticate. Eppure la storia è lì a raccontare che in qualche stagione passata, nelle vicende fra papisti e imperialisti, i guelfi si divisero, a loro volta, in guelfi di parte bianca e di parte nera. Dunque catalogazioni assolute e aprioristiche non ci furono nei tempi andati e probabilmente non ce ne sono ora. Tra il bianco e il nero c’è anche il grigio.

Purtroppo la comunicazione odierna viaggia sempre più con le immagini che hanno però il difetto di avere solo due dimensioni: sono alte e larghe, mancano della terza dimensione: la profondità. Riflettere con i tweet o con qualche comparsata nei molti talk show che popolano quotidianamente i programmi televisivi, è impresa ardua sia per i protagonisti delle vicende pubbliche, sia per coloro che leggono o ascoltano.

Ma veniamo al punto specifico, ovvero al concetto di inclusione. In politica, per chi si appassiona alla lettura della Bibbia o per chi è attento agli insegnamenti di Papa Francesco, l’inclusione di una persona in un contesto comunitario è un dovere. Nel testo sacro è scritto che, orfani, vedove e stranieri sono le tre categorie di persone deboli per eccellenza. Pertanto il prossimo deve avere ogni possibile attenzione per loro. Il Papa ripete in ogni occasione che la Chiesa deve aiutare, secondo il Vangelo, tutti quelli che sono in difficoltà, in particolare i poveri. Anche le dottrine laiche da secoli studiano le modalità per creare beni materiali e immateriali in modo da sovvenire alle necessità ed ai bisogni di “tutti” i componenti del consorzio umano in particolare i più bisognosi. Chi è forte o ha soldi non ha bisogno degli aiuti della politica. Gli egoismi degli uomini, da ché mondo è mondo, fanno poi la differenza tra le teorie e la pratica.

Nella scuola italiana il discorso sull’inclusione ha ambiti molto meno ambiziosi e più circoscritti. Le controversie sul tema sono però consistenti, di lunga data e talvolta anche trasversali tra progressisti e conservatori.

Cosa significa dunque scuola inclusiva? Per lo più il concetto di inclusione viene contrapposto a quello della vecchia scuola  riservata a pochi  (che dunque escludeva molti) o a quello di un sistema formativo che seleziona i migliori e quindi potrebbe escludere o rendere difficoltosa a una parte della scolaresca la prosecuzione del corso di studio. La selezione sarebbe insomma un acceleratore del triste fenomeno della dispersione scolastica.

Le domande o le provocazioni più ricorrenti sulle tematiche in argomento sono queste: Fino a quale livello di scolarità va praticata senza riserve l’inclusione? Il parcheggio in aula di un soggetto sano, ma renitente allo studio, nel secondo grado dei corsi, rappresenta di per sé inclusione? È utile puntare su percorsi personalizzati per ciascun alunno o è preferibile creare negli istituti di secondo grado modalità organizzative differenziate e vincolanti in rapporto alle attitudini e capacità dei soggetti? Ha senso parlare di valutazione, di merito o demerito nella scuola? Da ultimo: è attuale il valore legale del titolo di studio accordato, in modo generalizzato al termine del corso a chi sa e a chi non sa?

Sono interrogativi ricorrenti dentro e fuori della comunità educativa. La risposta la deleghiamo, con qualche scetticismo, ai cultori delle “scienze” pedagogiche e didattiche che affollano le aule universitarie e le stanze ministeriali e che peraltro non hanno trovato finora approdi sicuri e convergenti. Eppure il farmacologo prof. Silvio Garattini ripete spesso che “nella scienza non ci sono le sfumature della politica”. 

Ecco perché qui appare utile cogliere solo qualche sfumatura politica e proporre qualche riflessione generale sulla produttività del sistema formativo che sconta naturalmente alcune conseguenze in ordine alle tematiche sopra accennate. È quello che abbiamo provato a fare nell’ultimo numero di Tuttoscuola.

Clicca qui per leggere l’articolo integrale e sfogliare l’ultimo numero di Tuttoscuola

Scegli la formula che fa per te e abbonati ai nostri servizi