In ogni epoca e in ogni parte del mondo in cui si è sviluppato un pensiero pedagogico, la riflessione sull’educazione ha spesso messo in evidenza la connessione tra aspetti affettivi, cognitivi e motori che caratterizza lo sviluppo umano, la conoscenza, la crescita, la maturazione e l’apprendimento. Una connessione “testa, cuore, mani” che è stata ripercorsa e riconfermata sempre nel corso dei secoli. Altrettanto importante è la dimensione sociale dell’educazione. Proprio in questa dimensione si giocano infatti l’azione, l’intelletto e l’emozione mobilitate dall’educazione. Un’educazione focalizzata invece su una sola di queste dimensioni è rischiosa. Abbiamo parlato del perché la scuola debba quindi puntare sull’educazione socio-emotiva con Roberto Franchini, Docente dell’Università Cattolica del sacro Cuore, che ha moderato il convegno “L’educazione socio-emotiva, bussola per l’apprendimento” che si è tenuto lo scorso 15 maggio al Ministero dell’Istruzione e del merito.
Investire sull’educazione affettiva (o socio emotiva): perché e perché a farlo deve essere la scuola e non la famiglia?
“E’ chiaro che la famiglia ha un ruolo imprescindibile, ma credo che sia in difficoltà su questi temi perché è cambiata la temperie educativa ed è cambiato il contesto. Oggi ci troviamo di fronte a una generazione che, come direbbe Charmet, è più narcisistica che edipica perché presenta difficoltà più nell’aspetto socio-emotivo che in quello culturale, perché i bambini e poi gli adolescenti hanno un accesso precoce al mondo dell’informazione. Ma sono più disarmati sugli aspetti socio emotivi e così le loro famiglie. La scuola deve lavorare insieme alla famiglia. Per affrontare una sfida di questo genere, la scuola deve operare è un profondo cambiamento della struttura curricolare, cioè su cosa vogliamo che i ragazzi apprendano nel contesto educativo e scolastico. Qui il tema non è solo la fragilità socio-emotiva dei ragazzi e dell’educazione familiare, ma anche il cambiamento del contesto in cui vivono, dello sviluppo della digitalizzazione che chiede un corredo di competenze che in buona parte è diverso da quello che invece era necessario ai tempi in cui il bisogno prevalente era l’alfabetizzazione. Oggi si dovrebbe parlare semmai di alfabetizzazione socio-emotiva. La scuola, alla luce di questi nuovi bisogni, chiede un cambiamento sia sul ‘che cosa’ che sul ‘come’. Sul ‘che cosa’: curricolo nuovo. Sul ‘come’ si apre una voragine…”.
Una scuola che si prepara alla cattedra con test e crocette, è preparata abbastanza ad affrontare poi la questione socio emotiva? Non è necessario avere a supporto figure come psicologi ed educatori?
“Io farei una distinzione. In educazione è difficile buttar via qualcosa e non vorrei prendermela tanto coi test a crocette perché esistono nel percorso formativo delle fasi che, nel gergo didattico, vengono definite “sommative”. Però è bene guardare al processo, non all’esito. Il processo è educativo e non è fatto a crocette. E’ un procedimento mobile e attivo fatto di relazione, di cooperazione e di creazione. E’ la parte più preziosa che dura anni.. Io credo che nella maggioranza delle situazioni scolastiche in Italia i docenti siano soli. E’ un bel rebus. Dobbiamo chiederci qual è il nuovo DNA della professione docente. Perché se il docente acquisisce lui, in prima persona delle competenze socio-emotive parte del tema è risolto perché è poi lui il contatto quotidiano e continuo degli studenti. Poi sì, secondo me c’è bisogno di operare con il supporto e l’aiuto di teste aggiuntive ed esterne”.
Recenti fatti di cronaca hanno visto i ragazzi protagonisti e destinatari di gesti anti-sociali e violenti. Spesso teatro di questa violenza la scuola. Siamo di fronte a una crisi dei valori che rompe in qualche modo l’alleanza scuola famiglia. In che direzione lavorare per rinsaldarla?
“Non vorrei relativizzare, ma secondo me niente di nuovo sotto al sole. Ci sono testi di storici ben anteriori a Cristo che parlano di fattacci in contesti educativi. Questi fatti ci sono sempre stati, ma chiaramente oggi hanno un eco mediatico enorme. Ammesso e non concesso che accadano di più, questo può essere ricondotto a quella fragilità di cui parlavamo prima e che allora va affrontata alla radice, non a valle, con la prevenzione. Ma che cos’è la prevenzione? E’ education, è il lavoro socio-emotivo. Non è fare, a fronte di questi fatti, laboratori di cittadinanza, ma far diventare la scuola un’agenzia educativa e di cittadinanza”.
Nel dossier “L’educazione socio emotiva a scuola” che presto pubblicheremo su Tuttoscuola, lei parla di “cambiare la grammatica della scuola”… Cosa intende e perché è necessario farlo?
“La grammatica è quell’insieme di regole invariabili che consentono di parlare, di avere un linguaggio. Il linguaggio scolastico che grammatica ha? Quali sono le regole invariabili, o meglio che dovranno diventare variabili? Beh, gli spazi, i tempi, gli orari, le risorse didattiche, il modo di raggruppare… Per come la scuola è fatta oggi, non ha spazi e tempi educativi, ma classi frontali, aule, cattedre e orari stra-dettagliati. In un contesto di questo tipo anche il migliore educatore si troverebbe in difficoltà. Credo dunque che oggi vada cambiato non solo il linguaggio – e per linguaggio intendo che la scuola deve diventare socio-emotiva – ma va cambiata proprio la grammatica, cioè il modo di articolare lo spazio educativo con più zone di apprendimento e meno aule, va cambiato il modo di articolare il tempo, vanno cambiate le risorse educative e le modalità di raggruppamento. Oggi prevale l’uno-molti (un docenti, tanti ragazzi che ascoltano), invece bisogna dare più possibilità di raggrupparsi, cooperare, a volte anche di studiare da soli. Avere più fantasia, più libertà e autodeterminazione nel modo di creare socialità e relazione all’interno della scuola”.
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