Tuttoscuola: Il Cantiere della didattica

Alunni stranieri: tra ostacoli e momenti difficili, ecco come la scuola può fare la differenza

Pubblichiamo un intervento sulle scuole di periferia di Rosamaria Lauricella, dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo “G. B. Valente” di Roma.

“Sono Dirigente Scolastico di un Istituto comprensivo di Roma, in una zona periferica, non molto distante dal centro della città che accoglie un’utenza scolastica eterogenea e complessa, caratterizzata da flussi migratori di nuovi nuclei familiari di etnie diverse. Inoltre, sono presenti sul territorio molte comunità Rom, che portano i propri figli da noi.

Sono arrivata in questa scuola, come Dirigente, 10 anni fa ed ho trovato una situazione di apparente apertura verso questi alunni che, però, di fatto, erano solamente dei numeri in fatto di iscrizioni e non realmente dei bambini frequentanti. Da qui è iniziato il vero lavoro di integrazione, lungo, difficile e ancora oggi non del tutto risolto, anche se notevolmente migliorato nel tempo in termini di reale inserimento e convivenza nelle classi. Gli alunni Rom hanno iniziato ad avere un volto, un visetto forse anche sporco ma conosciuto e presente tra i banchi. Infatti, adesso, in ogni classe continuano ad esserci dei nominativi di alunni rom purtroppo semplicemente iscritti, ma siamo passati ad averne almeno due/tre per classe realmente frequentanti. Anche nella scuola dell’Infanzia abbiamo dei bimbi Rom presenti ogni giorno, nonostante la loro tenera età che scoraggia, per cultura, i loro genitori ad iscriverli. Abbiamo avuto dei momenti molto difficili … 

Non potrò mai dimenticare Tarabas che veniva a scuola con coltellini vari e Gianni che un giorno portò una pistola giocattolo così ben modificata e camuffata da sembrare vera, tanto da sconvolgere un’intera scuola. Come non dimenticherò mai i vari genitori che, pur dichiarandosi non razzisti, mi chiedevano perché il loro figlio o figlia dovesse stare seduto accanto ad un Rom non pulito e maleodorante.

Eppure, il lento lavoro svolto quotidianamente nelle situazioni di vita reale ha prodotto prima di tutto un cambiamento in noi adulti. Abbiamo dovuto lavorare sul nostro modo di concepire una scuola ormai multietnica, sulle modalità di vivere e condividere gli spazi con nuovi compagni che non erano mai entrati in un’aula. Sono cambiate le relazioni con le famiglie Rom, adesso sempre più presenti e partecipi alla vita scolastica e non è raro vedere una giovane mamma Rom che viene a parlare con me del figlio più grande, portandone dietro altri due aggrappati alla sua lunga gonna ed uno attaccato al seno.

Cosa si è fatto per loro? Sicuramente tanto lavoro di didattica pura come alfabetizzazione di base per italiano e matematica, nonché, coinvolgimento in attività per piccoli gruppi mirate all’apprendimento di regole spicciole del vivere civile e del rispetto delle regole. Ma, soprattutto, negli anni abbiamo abbandonato quell’aria di “gentile” accettazione del diverso per lasciare spazio ad una sempre più effettiva accoglienza lontana da giudizi. Così, è stato molto bello sentire i genitori mettersi a disposizione per trovare una soluzione ai comportamenti scorretti di Alessio, bambino Rom di 11 anni, offrendo il loro tempo per attività piacevoli come laboratori di cucina/pasticceria in cui inserirlo, piuttosto che chiederne l’allontanamento. Quindi, stiamo lavorando molto sulle famiglie perché siano agenti di cambiamento e perché si sentano parte di una comunità non penalizzata perché appartenente ad una realtà fragile e a rischio, ma semplicemente una realtà normalmente complessa.

Questo percorso di consapevolezza non sempre, però, è efficace e spesso ci si confronta con le contrarie opinioni dell’utenza. Infatti, durante le riunioni o gli open day in previsioni delle iscrizioni, si ripropongono le polemiche sulle scuole dove ci sono troppi stranieri che “rallentano il programma” anche perché, da circa due anni, la nostra scuola  è investita da una nuova identità di alunno straniero. In pochissimo tempo, vicino al nostro quartiere sono sorti dei centri di accoglienza per migranti e in ogni classe abbiamo bambini siriani, iracheni e dei paesi africani, martoriati dalla guerra.

A differenza delle iscrizioni dei bambini Rom, diluite nel tempo anche se continue, con frequenze irregolari pur sempre più assidue, l’inserimento di questi nuovi compagni è stato massiccio e repentino ed ha modificato nuovamente ed in poco tempo l’assetto demografico della nostra utenza. Inoltre, i nuovi arrivati, oltre ai problemi di lingua e di cultura diversa, portano dentro una storia di dolore e di un recente passato fatto, il più delle volte, anche di violenza vissuta.

Questa nuova emergenza, ha determinato una rivisitazione tempestiva del nostro approccio nei loro confronti, poiché abbiamo ritenuto prioritario farli sentire accolti con un sorriso e con l’ascolto spontaneo delle loro esperienze, attraverso dei mediatori culturali. In questo modo la scuola  prova a costruire e praticare forme di accoglienza e inclusione mirate a consentire agli alunni con background migratorio di sentirsi accolti e di accedere alle stesse opportunità di studio offerte ai loro coetanei italiani.

La scuola, allora, si dispone come comunità di pratiche che vuole e deve tenere conto sia delle risorse sia delle difficoltà pronta ad intervenire e raccontare sulla base dell’esperienza diretta. Tale capacità, peraltro, nelle periferie urbane può essere ulteriormente valorizzata. Infatti, in questi territori, significativi sia a livello geografico che sociale, quasi sempre le contraddizioni non sono contenute in contesti specifici o rinchiuse in ambiti nascosti, ma fanno parte del paesaggio e ne caratterizzano le relazioni, obbligando i diversi attori a fare i conti con loro. E in particolare la nostra scuola, non solo osserva ma ha dentro di sé, nel suo quotidiano e nelle sue attività, problemi e differenze, come la presenza di alunni migranti e stranieri rom. L’IC Valente si rende conto di come i processi di integrazione debbano essere intesi non come percorso che una minoranza deve fare per assomigliare e rendersi simile a una maggioranza, ma come processo di adattamento reciproco nella ricerca di una convivenza possibile.

Quindi, siamo sempre più consapevoli che il nostro Istituto può fare la differenza per sostenere percorsi virtuosi di integrazione e convivenza, convinti in primis  che dietro alla parola straniero non ci sono solo problemi, ma anche normalità e risorse. In seconda istanza, abbiamo iniziato a “prenderci cura”della comunità, delle famiglie, degli alunni a cui insegniamo a “prendersi cura” di se stessi, degli altri e del loro ambiente, stringendo  alleanze con la comunità, chiedendo a quest’ultima e ai suoi attori, a loro volta, di prendersi cura della scuola medesima, per creare un circolo virtuoso.

Nelle periferie, la scuola che fa la differenza è quella in grado di aprirsi al territorio, proponendo formazione e spazi di socialità e aggregazione. Il nostro obiettivo è quello di cementare la sinergia col quartiere e le istituzioni presenti, per intrecciare in futuro rapporti con le altre zone della città. Perché consideriamo la periferia non come cosa altra dalla città, ma come sua parte integrante e caratterizzante. Se il nostro RAV iniziale individuava come punti di debolezza e priorità su cui intervenire proprio la nostra utenza complessa e la nostra realtà di scuola a rischio, nel tempo siamo riusciti ad invertire questa tendenza e trasformare le fragilità in preziose opportunità.

L’autovalutazione di istituto ci ha guidati a comprendere che la scuola che fa la differenza è anche quella che sa riconoscere i propri limiti e che è consapevole di essere soggetto privilegiato e centrale ma, allo stesso tempo, non sufficiente. Molto probabilmente la scuola che fa la differenza è proprio quella che produce comunità, che insegna a costruire comunità educante, consapevole che costa “una fatica immane”, perché accogliere, produrre inclusione, fare convivere differenze, lavorare nelle contraddizioni e nei conflitti è molto più faticoso che respingere e allontanare.

Da quando la considerazione di noi stessi come realtà fragile e svantaggiata è evoluta in “presuntuosa” forza per determinare un cambiamento in un contesto periferico, la complessità sta facendo crescere in noi anche l’orgoglio di guidare  e gestire la stessa trasformazione, certi che è la strada giusta per formare coscienze inclusive nei nostri alunni, già cittadini attivi e promotori dello sviluppo della propria comunità”.

Rosamaria Lauricella

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