Fiorella Farinelli: scuola sempre aperta e doppio regime orario per gli insegnanti

Le sei piste di Tuttoscuola sono tutte importanti, e appropriate a una discussione connotata,  come sempre si dovrebbe, dall’intreccio tra strategie e fattibilità. Chi opera per il miglioramento del sistema educativo deve dunque apprezzare l’iniziativa, anche per l’offerta di intervenire nel merito. La dichiarata parzialità dell’approccio – ma la parzialità, oggi, è una virtù necessaria – non dovrebbe però scoraggiare dall’esplicitare il grappolo di  questioni  connesse all’uno o all’altro dei punti in discussione: non perché ci sia  al momento una praticabilità effettiva di strategie di lungo respiro ma per chiarire profilo e  direzione di marcia delle proposte.

E’ il caso, per esempio, della pista  “Digitalizzazione delle scuole ”, in cui non si possono mettere in ombra gli interrogativi e le possibili risposte  sui  cambiamenti organizzativi, didattici, professionali richiesti da una scuola 2.0, e tanto meno  l’analisi degli errori, e del non ottimale uso delle risorse, di parecchie delle azioni già intraprese. Anche a proposito della “Lotta senza quartiere agli abbandoni scolastici”, sarebbe utile allargare e approfondire. Se infatti è corretto dare il giusto rilievo allo sviluppo delle  attività di recupero e di riallineamento, bisogna anche evidenziare le azioni  e le specifiche competenze   necessarie a contrastare la nuova emergenza – l’insuccesso, le ripetenze, i ritardi, gli abbandoni, e perfino la “segregazione formativa” – che riguarda quella parte non proprio trascurabile, e anzi in evidente crescita, della scolarità rappresentata dai figli dell’immigrazione.

Non solo. Anche se ci sono oggi buone ragioni per non considerare facilmente fattibili  modifiche ordinamentali o investimenti finanziari importanti, permette di evitare ogni banalizzazione del fenomeno e della sua indispensabile riduzione  il richiamo all’esigenza di dare finalmente una consistenza  in tutte le aree territoriali alla filiera dell’IeF anche oltre i percorsi triennali, di sviluppare l’alternanza scuola lavoro e l’apprendistato formativo, di migliorare le capacità della scuola di misurarsi con la logica della “seconda opportunità”, di rafforzare la motivazione e la responsabilizzazione degli studenti attraverso l’opzionalità di parte dei curricoli dei trienni  della secondaria superiore, anche in funzione dell’auspicabile orientatività verso l’istruzione terziaria o verso il lavoro dell’ultima classe. Fermo restando che è prima di tutto in aula, quindi attraverso una didattica in grado di interagire con l’articolazione delle motivazioni e dei talenti individuali che si gioca gran parte della partita.

Il cuore della proposta, però, sta  nella prima pista (“Ottimizzare l’utilizzo delle strutture scolastiche”) e nei  fili che la collegano ad  altre, come il “più autonomia” della quarta e il “liberare e premiare le energie degli insegnanti” della terza. Non è una proposta  nuova – ci sono stati anche specifici progetti  finanziati, con esiti però per lo più effimeri  – fin dai tempi in cui erano in molti a mettere al centro  l’integrazione  tra le attività scolastiche e le iniziative educative e culturali  degli Enti Locali: un tema, peraltro, a cui continuare a prestare  attenzione, nonostante le difficoltà  dei Comuni,  sempre che non si voglia ricadere in antiche tentazioni/presunzioni  stataliste.  Nuova e importante è invece l’idea dei vantaggi non solo sociali per le comunità di riferimento, ma anche economici  per le famiglie e per le scuole stesse, che potrebbero  derivare da un sistema scolastico  capace di dare risposte efficaci, in collaborazione con altri soggetti, alla domanda delle famiglie di educazione non formale, arricchimento formativo, tutela nel tempo non coperto dal servizio scolastico.  

A chi obietta che la proposta sa di scuola-azienda si deve  rispondere che è piuttosto il comportamento di molti istituti scolastici, disposti ad aprire le porte solo ai soggetti in grado di pagare l’”affitto” – e viceversa chiusi ad  ogni iniziativa, anche se di indiscutibile valore sociale o educativo, del volontariato e del no-profit- che ha un odore non proprio consono al ruolo della scuola pubblica. E ai valori pur conclamati della “sussidiarietà”.  La proposta, del resto, parla anche di educazione permanente, e può anche parlare – come suggerisce Allulli – di un rapporto con il territorio inteso  come attività produttive, piccole imprese, reti e poli tecnologici, e via elencando; o di un rapporto con altri bisogni formativi della comunità come l’educazione alla cittadinanza attiva (e alla pratica di qualche “virtù civica” di giovani e meno giovani), come suggerisce chi scrive.

Radicalmente nuova, e indiscutibilmente “coraggiosa” nell’immobilismo inveterato di politiche del personale condizionate, come osserva Tuttoscuola, dallo “scambio” perverso tra grandi svantaggi  e piccole convenienze,  è poi l’idea di un’ottimizzazione anche dei tempi di lavoro non utilizzati:  quel luglio (e metà di giugno), insomma, che non è affatto un tempo destinato alle ferie, e che sarebbe invece prezioso per il recupero e l’allineamento delle competenze, per lo sviluppo delle capacità  linguistiche dei non italofoni, per  l’orientamento, per la formazione continua degli insegnanti stessi, e per molte altre attività e funzioni sacrificate dallo schiacciamento della prestazione docente sulle ordinarie attività d’aula e sulla non formalizzazione dei tempi di lavoro connessi.

Proposta sensata, appropriata ai tempi, e per di più coperta dalle norme contrattuali. Ma anche qui ci sono implicazioni che meritano ulteriori riflessioni. La prima ha a che fare con il superamento delle “microscuole” che non siano assolutamente indispensabili, essendo evidente l’impossibilità, per strutture molto piccole, di disporre delle strumentazioni e delle risorse idonee a diventare “scuole aperte”. Ma c’è dell’altro. L’ottimizzazione dell’utilizzo degli edifici e delle dotazioni – biblioteche, laboratori, aule multimediali, sale musica, spazi per l’espressività e la creatività ecc – significa soltanto apertura ad altri soggetti (con il sostegno economico, magari esentato fiscalmente, da parte delle famiglie), o anche presenza a scuola nel corso dell’anno scolastico di insegnanti impegnati in attività di insegnamento, recupero, approfondimento, orientamento, rapporti con le famiglie, interventi per i ragazzi in maggiore difficoltà, arricchimento dell’offerta educativa eccetera, purché  coerenti con il loro profilo e ruolo professionale ?

Tuttoscuola non si inoltra, sembra, in questo campo, ma è forse matura l’idea  di un secondo  regime orario opzionale per gli insegnanti, a cui collegare incrementi retributivi e “crediti professionali”. Sarebbe un modo  oggettivo, a differenza di altre ipotesi, per cominciare a superare le carriere per anzianità, e la triste rincorsa ad ottenere  modesti vantaggi  attraverso la partecipazione a progetti e progettini o allo svolgimento di provvisorie funzioni di staff.  E’ vero che la qualità dell’insegnamento non è traducibile in termini quantitativi, ma è anche vero che la scuola non dovrebbe essere solo la somma delle attività individuali d’aula. E che tutto quello che arricchisce e qualifica la vita di  una scuola, didattica compresa,  ha bisogno di relazioni e di incontri, di lavoro professionale comune, di preparazione di materiali e di prove, di cura dei laboratori, di formazione continua, di processi condivisi di autovalutazione: insomma di molto altro tempo. Una scuola è davvero “aperta”, e riconoscibile come presidio culturale delle comunità, del resto, solo quando a renderla tale ci sono gli insegnanti.  Se non tutti, almeno alcuni. C’è da scommettere che sarebbero molti gli  interessati a sperimentare una proposta di questo tipo.