Autonomia regionale differenziata: il modello americano, più risorse in cambio di risultati
Autonomia regionale differenziata/4
Se l’autonomia regionale differenziata riferita all’istruzione passasse, in ipotesi, nella formulazione contenuta nella bozza di accordo preliminare presentata nella notizia precedente, o in una modalità simile, alcune Regioni ne trarrebbero un vantaggio certo: quelle più ricche e/o meglio amministrate che, disponendo di risorse aggiuntive proprie, le potrebbero investire nella scuola. In tal modo, protestano gli avversari di questa prospettiva, tra i quali i sindacati degli insegnanti, aumenterebbe il divario tra le scuole del Nord e quelle del Sud, evidenziato dal Rapporto Invalsi di quest’anno.
Critica corretta, a nostro avviso, soprattutto nell’ipotesi di una complessiva invarianza di tutti gli altri fattori, cioè se l’autonomia regionale restasse una misura a se stante, limitata alle Regioni che l’hanno finora richiesta, e gli ordinamenti restassero gli stessi, il modello organizzativo (classi, cattedre) lo stesso, il contratto nazionale degli insegnanti, uniforme su tutto il territorio, lo stesso.
Ma supponiamo che lo stallo politico si sblocchi, che la mediazione del premier Conte abbia successo e che anche altre regioni, comprese quelle del Sud (la Regione Campania, a guida PD, lo ha già fatto nei giorni scorsi), chiedano e ottengano l’autonomia differenziata. Questo garantirebbe di per sé una riduzione del divario con le scuole del Nord? Certamente no, se accanto all’operazione di ingegneria istituzionale non fossero parallelamente avviate efficaci politiche nazionali di riequilibrio come, per uscire dal generico, un piano pluriennale straordinario di sostegno alle azioni regionali mirate alla riduzione dei divari in campo educativo.
Da questo punto di vista, in una prospettiva tendenzialmente neofederalista (che almeno sulla carta dovrebbe raccogliere anche il consenso del PD, a suo tempo promotore della riforma del titolo V della Costituzione, cui si ispira il regionalismo differenziato), il ruolo dello Stato potrebbe essere quello di incentivare tali azioni regionali, prendendo a modello – al netto della radicale diversità dei due sistemi – l’idea guida della riforma ESSA (Every Student Succeeds Act) realizzata negli USA dal presidente Obama a partire dal 2012 e tuttora in via di implementazione malgrado la frenata dell’attuale ministra trumpiana dell’istruzione, Betsy DeVos: finanziamenti aggiuntivi agli Stati (nel nostro caso alle Regioni) che mettono in opera iniziative, il cui esito sia verificabile con indicatori oggettivi, volte a migliorare la qualità e l’equità del loro sistema di istruzione e formazione. Più soldi, insomma, in cambio di risultati migliori. Ma le Regioni dovrebbero poter operare con maggiore flessibilità, innovare i modelli organizzativi, accrescere il tempo pieno, far lavorare a tempo pieno e pagare meglio gli insegnanti più specializzati e così via. Condizioni tutte da costruire, ma indispensabili per far sì che l’autonomia differenziata possa essere utilizzata per ridurre i divari educativi. Che altrimenti continueranno a crescere…
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