Stiamo provando l’ignoranza, perché non puntare ora (davvero) sull’istruzione?

Il dibattito sulla crisi e sul futuro del Paese. Il report di Tuttoscuola/2

Stiamo toccando con mano i danni prodotti dall’abbassamento delle difese culturali nella popolazione italiana. Per essere più diretti, vediamo sempre più nitidamente gli effetti dell’ignoranza, diffusa trasversalmente in ampi strati della società. Non sarà il caso di puntare di più sull’istruzione? In una fase in cui la politica (e auspicabilmente il Paese) si ferma a riflettere sulle strategie per imboccare la via della crescita e della competitività, e quindi su soluzioni che non possono essere di corto respiro e guidate solo dall’emergenza ma che siano frutto di visioni lungimiranti, lanciamo sommessamente un appello: uno dei pilastri su cui fondare l’azione di qualsiasi nuovo Governo – nella legislatura attuale o nella prossima se si andasse subito al voto – non può non essere l’educazione, per usare un concetto ancora più ampio, quello appunto dell’educazione della persona e del cittadino.

Auspicio troppo generico e scontato, buono solo per le campagne elettorali ma non per la politica “del fare”, concreta, con la quale i politici ritengono di poter intercettare l’attenzione dei cittadini?

Qualche numero può aiutare ad inquadrare il problema:

– il 39 per cento degli italiani nella fascia tra i 25 e i 64 anni non possiede un titolo di studio superiore alla terza media;

– il 30 per cento è analfabeta funzionale, ossia non è in grado di mettere in pratica ciò che ha studiato, addirittura il doppio rispetto alla media europea del 15 per cento. Secondo la definizione del rapporto Piaac-Ocse, un analfabeta funzionale è più incline a credere a tutto ciò che legge in maniera acritica, non riuscendo a “comprendere (…) testi scritti per intervenire attivamente nella società”. Il pensiero non può non correre ai crescenti rischi di manipolazione attraverso i social e i media tradizionali;

– in terza media (dati Invalsi di quest’anno) il 35% degli alunni non è in grado di comprendere un testo in italiano, ma in Calabria la percentuale sale al 50%. In inglese la quota di studenti che non arriva al livello prescritto (A2) è del 30% nel Nord Ovest, del 25% nel Nord Est, del 35% nel Centro, del 54% nel Sud e del 61% nel Sud e Isole.

– nelle superiori se gli alunni deboli in italiano sono il 30% in media, in Calabria e Sardegna raggiungono il 45%. In Matematica il quadro peggiora e appare ulteriormente differenziato fra le diverse aree del Paese: la percentuale di alunni che non arriva al livello minimo è del 32% nel Nord Ovest, del 28% nel Nord Est, del 35% nel Centro, del 48% nel Sud e del 56% nel Sud e Isole.

Potremmo andare avanti, ma per carità di patria ci fermiamo a questi dati sconcertanti. I problemi dell’Italia cominciano qui, nasconderselo vorrebbe dire aggiungere miopia a miopia. E passano per l’emorragia di 3 milioni e mezzo di studenti che negli ultimi vent’anni hanno lasciato la scuola secondaria superiore statale (su 11 milioni di iscritti).  

Gli effetti negativi in termini economici, sociali, sulla salute e anche sulla sicurezza  – che Tuttoscuola ha approfondito nel dossier “La scuola colabrodo” (scaricabile a questo link: https://www.tuttoscuola.com/prodotto/la-scuola-colabrodo/) -, e in generale sulla competitività del sistema-Paese, sono enormi.

Ne consegue che la ripartenza di un paese in crisi – una crisi prima di tutto culturale e di carente pensiero critico – passa anche per una scuola rafforzata, posta “al centro del villaggio”, e per un nuovo patto educativo con le famiglie e con tutti gli stakeholders coinvolti, dal territorio alle istituzioni.

Le obiezioni le conosciamo. Non ci sono le risorse economiche per affrontare un rinnovamento drastico del sistema scolastico, e i risultati sarebbero lontani nel tempo. Inoltre le resistenze al cambiamento nel personale della scuola sono troppo forti.

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