Il calo demografico: la grande chance per ammodernare la scuola
Il dibattito sulla crisi e sul futuro del Paese. Il report di Tuttoscuola/3
Eppure stavolta il nostro Paese ha una grande opportunità, un’occasione che sarebbe insensato non cogliere, proprio per rilanciare l’investimento in istruzione. Il calo demografico, un pericolo ancora più grande della recessione per un Paese che voglia tornare a crescere in campo economico e politico (e che nessuno – se non a parole – finora è riuscito ad affrontare) può comunque trasformarsi in una chance per riqualificare il sistema formativo, primo settore pubblico coinvolto appunto nella flessione demografica. Senza spendere un euro in più di oggi, o comunque senza incrementare l’incidenza della spesa per l’istruzione rispetto al PIL, che – ricordiamolo – è tra le più basse d’Europa (è scesa dal 5,5% del 1990 al 3,9% del 2016: l’Italia è quint’ultima tra i 28 paesi dell’Unione europea, dove la media è del 4,7%).
Secondo le proiezioni demografiche di Eurostat, rielaborate dalla Fondazione Agnelli, fatto 100 il numero di studenti italiani tra i 6 e i 16 anni nel 2015, si prevede che nel 2030 scenderanno a 85 (mentre i coetanei svedesi saliranno a 125, quelli tedeschi e inglesi a 109). Questione epocale che fa sorgere molti interrogativi sulla sostenibilità del sistema produttivo, pensionistico e sociale per il nostro paese, e anche di questo si dovrebbe parlare.
Ma rimaniamo a ciò che concerne il sistema formativo. Si può stimare che l’Italia nel 2030 avrà un milione e 300mila studenti in meno. Ciò comporterà una sensibile “riduzione di taglia” del sistema formativo: meno spazi occupati, meno costi vivi, soprattutto meno costi per il personale (che incidono per oltre il 90% del bilancio del Miur). Nel frattempo i docenti – che oggi hanno un’età media di 51 anni – saranno per circa il 40% nuovi, rispetto a quelli in cattedra oggi, alcuni dei quali saranno nativi digitali come i loro alunni. E anche questa criticità può essere trasformata in una opportunità, se affrontata con un’ottica lungimirante: l’ingresso di forze fresche, con possibilità di selezionare le risorse più qualificate e con una formazione al passo con i tempi per salire in cattedra, crea le premesse per un cambio di mentalità e di ambiente che sembra indispensabile. Ma anche questo passaggio va programmato e gestito.
Il dimagrimento del sistema di istruzione italiano non è da venire, è già in corso.
Meno bambini nascono, più aule scolastiche si svuotano. La natalità è in costante decremento e in una prospettiva che sembra irreversibile. Da alcuni anni, addirittura, sono stati registrati livelli minimi del numero di nascite inferiori a tutti quelli che vi sono stati dall’unità d’Italia in poi.
Del resto il numero di madri potenziali (donne residenti tra 15 e 45 anni) è sceso nel decennio 2007-2017 da 12.240.000 a 10.960.000. Nello stesso periodo è anche diminuita la loro propensione ad avere figli: il tasso di fecondità è infatti sceso da 1,42 a 1,34 figli per donna.
Alle culle vuote di ieri e di oggi, corrispondono i banchi vuoti di oggi e di domani, i posti di lavoro non occupati di domani, la mancata ricchezza del futuro di un Paese che, invecchiando, disporrà sempre meno di risorse per contribuire al sostegno di una popolazione anziana. Tuttoscuola ha provato ad analizzare la situazione nei vari cicli di istruzione, dalla scuola dell’infanzia a quella secondaria di secondo grado con riferimento a quanto avvenuto nelle scuole statali nell’ultimo quinquennio, dal 2014-15 al 2018-19.
In Campania negli ultimi quindici anni, ad esempio, il calo di nascite è stato costante, anno dopo anno, al ritmo di una media di 900-1000 nascite in meno all’anno: il numero dei nati è sceso dai 64.310 del 2003 ai 49.990 del 2017 (-22%). Un fenomeno che, grosso modo, nello stesso periodo ha riguardato tutta Italia. E se non ci fosse il contributo di nascite degli stranieri e degli italiani di seconda generazione, il calo sarebbe verticale.
Ecco l’analisi per grado di scuola, dall’infanzia agli istituti di istruzione secondaria di II grado.
La scuola dell’infanzia, che nel 2014-15 accoglieva 1.021.799 bambini, nel 2018-19 ne ha accolti soltanto 918.299: ha perso 103.500 iscritti, pari ad oltre il 10%.
Quasi la metà si è registrata nel Mezzogiorno (51.637 iscritti in meno nel quinquennio) e poco meno di un terzo nelle scuole del Nord.
Per quanto riguarda il primo anno di iscrizione nella scuola primaria, nel quinquennio considerato si sono persi poco più di 42 mila alunni, pari all’8% degli iscritti al primo anno di corso.
Non ci sono territori che si sono salvati da questa onda di magra, anche se al Nord all’inizio del quinquennio si è registra una certa tenuta.
L’onda di magra della denatalità, come si vede, sta interessando i primi settori del sistema ma secondo l’analisi di Tuttoscuola, nei prossimi anni si estenderà ai settori scolastici successivi, che, comunque, se pur in forma ridotta, probabilmente per il mancato precedente apporto di alunni con cittadinanza non italiana che in parte stanno lasciando con le loro famiglie il nostro Paese.
Al termine del quinquennio considerato la secondaria di I grado ha registrato nel primo anno di scuola circa 11 mila alunni in meno (-2%), di cui quasi la metà nelle scuole del Sud.
Al termine del quinquennio 2014-18 nel primo anno delle superiori si sono registrati 22.600 studenti iscritti in meno, pari a -3,7%. Più della metà, ancora una volta, nelle regioni del Sud.
Cosa si può dedurre? Visto che il trend proseguirà e si intensificherà, abbiamo davanti una irripetibile finestra di opportunità, che difficilmente si ripresenterà, per finanziare un rinnovamento vero e non solo a parole. Occorrono la visione strategica e il coraggio politico di non cadere nella tentazione di trarre vantaggio finanziario dalla flessione di organici, e non riversare nelle casse dello Stato (come purtroppo prevedono invece i vari documenti programmatici di economia e finanza degli ultimi governi di vario colore) i risparmi conseguenti.
Il calo di organico può, anzi, deve costituire una risorsa di sistema da reinvestire interamente in istruzione e formazione, per dotarci – pressoché a parità di spesa attuale – di un sistema formativo più al passo con le difficili sfide che ci attendono. Se poi si vorrà investire di più, magari ottenendo un plausibile “sconto” sui parametri di bilancio di Bruxelles, si accorceranno anche i tempi nel conseguire i risultati.
In primo luogo bisognerà cercare di soddisfare i fabbisogni di professionalità del mondo produttivo e dei servizi, che già oggi non trova le risorse umane che occorrono (secondo uno studio del dicembre 2017 di Unioncamere e Anpal, su dati del sistema informativo Excelsior, il “mismatch” domanda-offerta riguarda più di un posto di lavoro su 5). Un mondo produttivo che domani, nel regime di crescente concorrenza internazionale determinato dalla globalizzazione, potrà competere solo disponendo di un capitale umano di elevata qualità. Non ci riferiamo dunque solo alla formazione dei profili “utili” richiesti dalle imprese per l’inserimento nelle attività produttive correnti, quanto soprattutto allo sviluppo nei discenti di un pensiero complesso, che li sostenga in tutto il percorso lavorativo e di vita.
Tutte le strutture formative (scuola, università, ricerca, formazione professionale) dovranno concorrere al miglioramento del capitale umano. Ma dovranno farlo sulla base di una strategia di medio-lungo periodo che tenga conto delle conseguenze che gli ulteriori progressi delle nuove tecnologie e delle neuroscienze produrranno sui modelli formativi tradizionali.
Tocchiamo più da vicino i possibili impatti sul sistema di istruzione. Il calo costante delle nascite ha già avuto come primo effetto l’abbassamento del numero medio di alunni per classe. Ma, dopo i primi anni di assestamento, sta determinando la chiusura di intere classi e il decremento degli organici del personale docente.
La scuola dell’infanzia, ad esempio, ha tuttora un 10% di sezioni funzionanti nella sola fascia antimeridiana senza pranzo per i bambini. La riconversione degli organici eccedenti può consentire a 100 mila bambini di fruire di un servizio educativo a tempo pieno basilare per la loro formazione. E’ ormai dimostrato che i primi cinque anni di vita sono cruciali per lo sviluppo del cervello e della mente umana e quindi anche per regolare al meglio l’equilibrio tra la salute fisica e mentale dei bambini.
La scuola primaria sta incrementando a piccoli passi di anno in anno l’organizzazione a tempo pieno. La riconversione dei posti di organico resisi disponibili può conseguire l’obiettivo di disporre di un servizio formativo che nei territori delle grandi periferie concorre ad allontanare i ragazzi dall’abbandono e sottrarli allo sfruttamento e, in prospettiva, alla devianza minorile.
Nella secondaria di I grado e, soprattutto, in quella di II grado l’impiego di risorse umane aggiuntive può aiutare, con progetti mirati, a prevenire e contrastare la dispersione scolastica che registra tuttora un tasso di oltre il 20%: uno studente ogni cinque non arriva al diploma di maturità. La formazione delle migliaia di ragazzi che non concludono il percorso scolastico è un costo (circa 3 miliardi l’anno) che non viene portato a buon fine, uno spreco. Vanifica l’impiego di milioni di risorse e, soprattutto, nega il diritto di cittadinanza di ragazzi che rischiano di essere esclusi dal sistema sociale.
I mutamenti della società digitale e dell’informazione e i trend demografici, attesi e in buona parte inevitabili, rappresentano una sfida complessa per la scuola italiana, densa di minacce e di rischi. Ma offrono anche straordinarie e forse irripetibili occasioni di trasformare radicalmente l’impianto del sistema educativo del nostro Paese, che si è strutturato nel corso del secolo scorso e in parte addirittura in quello precedente, quando le esigenze e le caratteristiche della società erano del tutto diverse. Sarebbe bello che qualcuno finalmente se ne accorgesse.
Come riorganizzare il servizio scolastico in tale prospettiva? Serve un nuovo modello di scuola, aperta, digitale e inclusiva, con una nuova governance per obiettivi, fatta di autonomia e rendicontazione pubblica. Servono regole di funzionamento più snelle e meno arcaiche. Dovranno essere fatte scelte coraggiose, in forte discontinuità con il passato, ma anche con il presente. Per evitare di ritrovarci tra 10-15 anni con un sistema di istruzione del tutto inadeguato alle esigenze future, tenuto conto che per molti versi esso non è neanche al passo con i tempi attuali.
La globalizzazione delle economie e delle tecnologie (dalla robotica alla bioingegneria, dalla produzione di energie alternative a sempre più sofisticati devices connessi a una rete anch’essa sempre più evoluta) comporterà la globalizzazione dei sistemi formativi, che dovranno tenere conto del tipo di conoscenze e competenze richieste dal mondo produttivo e della grande distribuzione – e anche da quello dei consumatori. E’ prevedibile uno spostamento del baricentro dei sistemi educativi, e delle relative politiche, dal governo dell’offerta (apparati organizzativi più o meno accentrati, programmi standardizzati o comunque definiti centralmente, accento su chi insegna) a quello della domanda espressa dai destinatari finali, gli studenti e il mondo produttivo (accento su chi apprende, modello organizzativo più flessibile, personalizzazione, soft skills come la capacità di apprendere e collaborare, la creatività ecc.).
Nuove coordinate di spazio e di tempo, personalizzazione, apprendimento cooperativo, interdisciplinarità, multimedialità, nuovo ruolo del docente sono infatti alcune delle sfide lanciate dalla rivoluzione tecnologica e dalle scienze cognitive ai sistemi educativi di tutto il mondo in questo inizio del XXI secolo.
L’Italia è pronta a questa rivoluzione? Il sistema formativo italiano è in grado di sostenerla? Non sono questioni solo da addetti ai lavori. Diremmo che sono temi da statisti. Ce ne sono?
Dobbiamo assolutamente evitare che altri tre milioni e mezzo di ragazzi nei prossimi 20 anni seguano un percorso fatto di scelte sbagliate, di bocciature, di disillusioni e di disoccupazione, come avvenuto negli ultimi vent’anni (vedi Dossier di Tuttoscuola “La scuola colabrodo”). “Questa è la prima generazione che vive l’angoscia del futuro, dell’incertezza, della precarietà. La speranza comincia dalla scuola” (Don Luigi Ciotti, Associazione Libera).
Le condizioni affinché la successiva generazione non sia preda di analoga angoscia vanno pensate oggi. Se non si riflette approfonditamente su questa realtà e non si fa una programmazione a medio-lungo termine, non si potranno fare adeguate politiche della formazione dei docenti, dell’edilizia scolastica, di accompagnamento dei processi di innovazione ecc. Antivedere le necessità future è indispensabile. Come suggerisce la saggezza popolare, “prevenire è meglio che curare”.
Torniamo alla crisi politica di questi giorni. Se non se ne parla in questo momento, coinvolgendo la politica, i cittadini, gli insegnanti e i dirigenti scolastici, quando? E spetta alla politica inserire il tema ai primi punti dell’agenda del Paese. Hic et nunc.
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