Pandemia: vengono prima le scuole o i trasporti?
Sul Paese sembra soffiare una ventata di follia: l’accrescersi dei casi di positivi al Covid 19 spinge politici e amministratori a proporre misure di protezione della salute pubblica che contrastano in modo clamoroso con la promozione del benessere sociale (che non è solo sanitario). Accanto a una serie di restrizioni di spazi di libertà di movimento e di commercio, non mancano voci di peso che discettano di scuola, proponendo anche il ritorno integrale alla didattica a distanza. Ma non si può rischiare di valutare la scuola, “nel suo potenziale di contagio, alla stregua dello stadio, della discoteca, del ristorante, del pub, del mezzo di trasporto, eccetera”, come ha scritto Gustavo Zagrebelsky su “Repubblica”, invocando “un patto sociale” e “una mobilitazione per difendere l’apertura delle scuole” e appellandosi al “‘bene comune’, che è tuttavia la somma di tante piccole azioni particolari”.
E infatti il Dpcm di oggi conferma che le scuole resteranno aperte (eccetto che in Campania, che comunque ha riaperto le scuole dell’infanzia), sia pure agendo su orari e alternanza tra didattica in presenza e a distanza alle superiori.
Con riferimento alle scuole, la ragione avanzata per l’eventuale chiusura sarebbe la necessità di diminuire sensibilmente il numero degli utenti dei mezzi pubblici di trasporto, sui quali sarebbe impossibile rispettare le norme fissate di capienza limitata. Ma perché non si è lavorato in questi mesi per ampliare l’offerta dei mezzi di traporto, così come si è lavorato per rendere sicure le scuole?
Talvolta si sente anche dire che la scuola sarebbe un focolaio molto importante di contagio. Ma in queste prime settimane di scuola i casi di studenti positivi sono stati relativamente pochi: e buona parte di quei pochi sono casi che risalgono a frequentazioni o comportamenti esterni agli istituti scolastici.
Diciamolo chiaramente: se ci sono oggi luoghi “protetti”, quelli sono proprio le scuole. A differenza di quel che è accaduto in altri settori, dirigenti, docenti e operatori scolastici hanno lavorato duramente e continuativamente durante i mesi del confinamento (in particolare per l’intera estate e lo fanno ancora oggi) per far sì che gli istituti potessero accogliere nel migliore dei modi, nel rispetto delle norme anticovid, i loro studenti. Un gran lavoro fatto anche in presenza di gravissime lacune organizzative non certo dovute a carenze interne. Ogni dirigente scolastico, docente, personale amministrativo e ausiliario ha fatto esperienza della confusione deleteria originata anche da prescrizioni talvolta approssimative e anche contraddittorie tra loro. Ognuno si è dovuto trasformare (per salvare il salvabile) pure in geometra, architetto, medico, esperto di sicurezza così da garantire il più possibile agli alunni una ripresa dell’attività didattica in presenza.
Ciò non vuol dire che in questa nuova situazione di pericolo non si debba agire, ad esempio, per differenziare gli orari di entrata e di uscita o per alternare attraverso rotazioni la didattica in presenza con la DDI.
Nei mesi in cui la scuola lavorava per la ripresa, tra mille incomprensioni, cresceva il pubblico dibattito in definitiva con poco costrutto e caratterizzato dall’indice spesso puntato contro la realtà di una scuola che al di là dei suoi difetti resta pur sempre un fondamento della vita culturale e sociale della Repubblica.
Verrebbe da dedurne che nel concreto la scuola interessa a ben pochi come motore funzionante della comunità. Verrebbe da dedurne che alla maggior parte dei decisori la scuola sia indifferente: ci sia o non ci sia, funzioni o non funzioni, la società va avanti lo stesso. Il punto è: quale società? quale destino per le giovani generazioni che sono le più colpite dalla pandemia?
E’ vero che tutto nell’emergenza è difficile, ma è anche vero che tutto nell’emergenza è possibile. La scuola ha un gran bisogno di decisione e di velocità, di chiarezza e di trasparenza, di progetti mirati e prontamente realizzabili.
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