
Nuove Indicazioni Nazionali/3. Sul latino antiche e nuove controversie

Della presenza e del ruolo del latino nella scuola italiana Tuttoscuola si è occupata più volte nel tempo, a partire dalla sua fondazione (1975), con l’intervento di autorevoli esperti e del suo stesso fondatore, Alfredo Vinciguerra, che in un articolo del marzo 1983, intitolato “Il rimpianto del latino”, ne auspicò la reintroduzione facoltativa almeno in terza media, come ricordato anche dall’ex ministro della PI Gerardo Bianco, autorevole latinista, nella sua testimonianza contenuta nello Speciale “Alfredo Vinciguerra trent’anni dopo”, scaricabile gratuitamente dal nostro sito.
Il confronto politico e culturale sul latino ha accompagnato la storia della scuola repubblicana fin dai lavori della Costituente (1947), quando il diritto di ciascun giovane, anche se povero, ad accedere a una scuola media di qualità, comprensiva dello studio del latino, fu sostenuto da Concetto Marchesi, illustre latinista e deputato del PCI, convinto a differenza di altri esponenti del suo stesso partito che l’apprendimento della “grammatica di una lingua morta” fosse “strumento più adatto di qualsiasi lingua viva alla formazione mentale dell’alunno”.
L’opinione di Marchesi, condivisa da uno schieramento trasversale ai partiti politici, influì sulla decisione di mantenere lo studio del latino, sia pure in forma facoltativa, nella scuola media unificata (legge n. 1859 del 31 dicembre 1962), e animò una forte resistenza alla definitiva soppressione del latino decisa con la legge n. 348 del 1977.
Pochi anni dopo, nel corso del dibattito sulla riforma della scuola secondaria superiore, che secondo alcune ipotesi allora circolanti prevedeva l’esclusione o la forte penalizzazione del latino, un gruppo di 130 prestigiosi intellettuali di diverso orientamento politico, compresi alcuni vicini al PCI (ma di “scuola Marchesi”) prese posizione contro tali ipotesi chiedendo anzi di tornare indietro sulla decisione del 1977. Anche Tuttoscuola partecipò attivamente al dibattito proponendo il ripristino dello studio del latino “almeno in un anno della scuola media”, come scrisse Alfredo Vinciguerra nel citato articolo del marzo 1983.
Non se ne fece nulla, come nulla d’altra parte si fece sul fronte della riforma della scuola secondaria superiore. Da allora le preoccupazioni per la scarsa padronanza della lingua italiana da parte dei nostri studenti sono cresciute, alimentando – a destra come a sinistra – il “rimpianto del latino” come strumento utile per migliorare la conoscenza e l’uso della lingua italiana. Patrizio Bianchi, ministro della PI del governo Draghi, di area PD, auspicò una ampia adesione delle scuole e delle famiglie all’ipotesi di inserire lo studio facoltativo del latino nei PTOF delle scuole medie.
Ora il PD spara a zero sulla analoga proposta dell’attuale ministro Valditara, presentandola come una mera regressione nostalgica. Certo, servirebbe una misura strutturale, accompagnata da una adeguata formazione dei docenti di lettere, e anche risolvere il problema (posto da Marchesi ma anche, prima di lui, da Gramsci) se lo studio del latino, ritenuto utile per la formazione critica dei cittadini, debba a questo punto diventare obbligatorio per tutti. Se ne discute.
Restano alcuni aspetti che forse appariranno prosaici. Attualmente nella scuola secondaria di I grado non vi sono docenti che possono insegnare latino (e forse nemmeno lo conoscono).
Per insegnarlo nella scuola media, occorrerebbe attingere alle graduatorie delle classi di concorso A011 e A013 del secondo grado: una trasversalità di utilizzo non facile da realizzare.
In quale orario? Non essendo un insegnamento curriculare, il latino dovrebbe essere insegnato in orario extrascolastico, pomeridiano: una complicazione organizzativa per le famiglie e per le scuole.
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