Libertà di stampa a rischio. L’Espresso in vendita

Nella classifica 2021 di Reporter Senza Frontiere (rsf.org), che fornisce annualmente l’indice di libertà della stampa in 180 Paesi, l’Italia occupa il 41° posto. Una posizione lontana dal vertice della classifica, occupato da anni dai Paesi del Nord Europa (Norvegia, Finlandia, Svezia, Danimarca), ma migliore di quella degli Stati Uniti (44° posto), dove “l’ultimo anno di mandato di Donald Trump è stato caratterizzato da un numero record di aggressioni (quasi 400) e arresti di giornalisti (130)”, si legge nel report, che si riferisce all’anno 2020.

Certo, molti Paesi stanno peggio dell’Italia (secondo RSF il 73% dei 180 Paesi valutati è caratterizzato da situazioni giudicate come “gravissime”, “difficili” o “problematiche” per la professione giornalistica, e solo 12 Paesi su 180, ovvero il 7%, mostrano una “buona situazione”). Però anche da noi, dove la pluralità delle fonti informative e delle opinioni non è in discussione, ed è protetta dalla Costituzione (art. 21: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”), la libertà d’espressione dei giornalisti può essere condizionata dall’orientamento politico dei proprietari delle testate, ai quali spetta in particolare la nomina dei direttori. E quando una testata ha una precisa fisionomia politico-culturale, costruita nel tempo con l’apporto decisivo dei suoi direttori, un cambiamento nella proprietà ne può determinare un’alterazione più o meno profonda, e comunque fa venire meno la continuità delle condizioni che avevano garantito la costruzione della sua identità.

È quanto sta accadendo all’Espresso, settimanale fondato nel 1955 da Arrigo Benedetti e che ha avuto tra i suoi direttori Eugenio Scalfari, Claudio Rinaldi, Giulio Anselmi, e dal 2017 Marco Damilano (che era entrato nel 2001 nella storica redazione di via Po), tutti fautori e protagonisti di un giornalismo libero, non allineato ai potenti di turno, impegnato sul fronte delle battaglie civili, per un’Italia più moderna e più giusta anche per quanto riguarda il livello di istruzione dei suoi cittadini, come ha mostrato in più occasioni dando rilievo e visibilità anche a iniziative di Tuttoscuola come l’indagine La scuola colabrodo.

L’Espresso è stato messo in vendita da parte di Gedi – dal 2020 controllata (attraverso Giano Holding) da Exor, la finanziaria cassaforte della famiglia Agnelli – a BFC Media, la cui maggioranza è stata acquisita da Danilo Iervolino, fondatore dell’università on line Pegaso, recentemente venduta al Fondo CVC per un miliardo e mezzo di euro. Dopo aver appreso la decisione Damilano, al quale è stata offerta la possibilità di restare, si è dimesso, non reputando il nuovo acquirente in grado di garantire la continuità della linea politico-editoriale del settimanale e ritenendo violato “il più elementare obbligo di lealtà e di fiducia”. “L’Espresso è sempre stato la mia casa”, ha scritto nell’editoriale di congedo rivolto ai lettori, “e Gedi ha garantito il lavoro del nostro giornale. Ma se la casa viene cambiata, dall’arredamento alle suppellettili, fino a venderla, non resta altro da fare che prenderne atto. È una questione di coscienza e di dignità”.

Ci auguriamo e gli auguriamo – a lui come ai redattori dell’Espresso, che gli hanno manifestato condivisione e solidarietà – di poter continuare a far sentire la sua voce libera in un panorama editoriale come quello italiano che, pur tra le difficoltà, resta pluralista e libero. Ma appare sempre più urgente aprire un dibattito serio sul ruolo dell’informazione nel nostro Paese, dal punto di vista politico, culturale e anche educativo.

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