La scuola che verrà: un’occasione da non perdere

La scuola che verrà/2

Ci sarà una ragione per la quale la scuola italiana è rimasta gentiliana nel suo impianto generale, gerarchizzata, classista e selettiva, e non si è posto alcun rimedio ai divari Nord-Sud (nonché tra istruzione liceale e professionale)? Alla radice dello scacco del riformismo scolastico sta quello del sistema politico-istituzionale in termini di governabilità nel medio-lungo periodo, che è il solo orizzonte temporale nel quale può dare i suoi frutti una riforma scolastica di respiro strategico, davvero innovativa. Quella di cui la scuola italiana tutta (anche molta parte di quella del Nord) avrebbe bisogno per rompere con il suo passato-presente di mediocre qualità complessiva (parliamo dei risultati medi dell’Italia nelle indagini comparative), di discriminazione dei più deboli, di didattica trasmissiva che non cattura l’attenzione degli studenti, insomma di profonda iniquità. Sarebbe, questa, una riforma “epocale”? Certo che sì.

Per una complessa serie di ragioni che sarebbe arduo anche solo riassumere nello spazio di una newsletter non sono mai maturate in Italia condizioni storico-politiche favorevoli a una svolta a livello costituzione e istituzionale idonea a consentire la formazione di solidi governi di legislatura (i fallimenti vanno dalla ‘Grande Riforma’ di Craxi a quello del modello maggioritario monocamerale di Renzi). Anche per questo nessun governo ha potuto programmare una riforma scolastica di lungo periodo e si è proceduto per velleità, proclami e rammendi che hanno lasciato invariato il sistema e i suoi storici problemi.

Il lockdown delle scuole deciso a seguito del Coronavirus non ha fatto che evidenziare tali problemi, aumentando le disuguaglianze. Anche per questo sarebbe sbagliato tentare di ripristinare lo status quo con le sue classi chiuse, il disciplinarismo, gli standard rigidi e la didattica solo trasmissiva. Durante il lockdown la maggior parte delle scuole ha mostrato di essere pronta a raccogliere la sfida lanciata dalle nuove tecnologie, ma in generale dalla modernità alla didattica tradizionale, e gli insegnanti si sono mostrati disponibili al cambiamento assai più di quanto i sindacati ritenessero, come ha dimostrato la loro scarsissima partecipazione (il Ministero parla dello 0,5%) allo sciopero generale dell’ultimo giorno di scuola.

Per noi la via maestra del cambiamento non sta più nel “fare” una ennesima riforma degli ordinamenti ma piuttosto nel “non fare più” interventi solo di tipo normativo, puntando invece – ma davvero – sull’autonomia delle scuole affinché realizzino – ma davvero – le finalità enunciate al comma 1 della legge 107/2015, tra le quali il rispetto dei tempi e degli stili di apprendimento degli studenti, il contrasto delle diseguaglianze socio-culturali e territoriali, la prevenzione dell’abbandono e della dispersione scolastica,  la realizzazione di una scuola   aperta   “quale   laboratorio   permanente    di    ricerca, sperimentazione e  innovazione  didattica,  di  partecipazione  e  di educazione alla cittadinanza attiva”, la garanzia del diritto allo studio, le pari opportunità di successo formativo  e  di  istruzione permanente dei cittadini.

Basterebbe lasciare alle scuole, dotandole delle risorse finanziarie, tecnologiche e umane (da loro scelte) necessarie, la piena responsabilità di operare per il migliore conseguimento di tali finalità, declinate in obiettivi più circostanziati definiti centralmente oggetto di valutazione periodica, liberandole dagli storici vincoli di tempi, luoghi e procedure che l’hanno ingabbiata, come hanno spiegato bene i due docenti ‘filosofi per caso’ nel brillante articolo segnalato da Tuttoscuola nella newsletter della scorsa settimana.