Insegnanti & futuro/2. Quali insegnanti per quale scuola

Che cosa fare per porre rimedio a una situazione che vede troppi studenti non raggiungere livelli di apprendimento adeguati, come dimostra il fenomeno della “dispersione implicita” rilevato dall’Invalsi e il fatto che la scuola italiana galleggi da tempo al di sotto delle medie internazionali rilevate dalle indagini comparative internazionali (quelle della IEA e quelle dell’OCSE) relative alle prestazioni degli alunni nei principali campi di apprendimento (lettura, matematica, scienze)?

Al netto delle riserve avanzate da molti (anche dalla SICESE) sulla comparabilità tra sistemi profondamente diversi per ragioni storico-culturali, e sulla validità dei test come strumenti di valutazione delle performance, non c’è dubbio che i dati raccolti dalle suddette indagini, confermati in larga misura anche dall’esito delle prove nazionali Invalsi, segnalano non solo la mediocrità della preparazione dei nostri studenti nel loro insieme ma anche fortissime disparità territoriali tra Nord e Sud e per tipologia di studi seguiti, con i licei delle grandi città in testa e gli istituti professionali in coda. Per non parlare del dramma della dispersione, esplicita e implicita, che colpisce soprattutto il Sud. Quanto influisce la preparazione dei docenti su questi risultati?

Dai tempi della Lettera a una professoressa di don Milani (1967) e de “Le vestali della classe media” (Barbagli-Dei, 1969), ricordati da Donatella Palomba nella tavola rotonda di cui alla precedente notizia, il dibattito sul ruolo sociale dei docenti è aperto. Il ritardo e le contraddizioni delle riforme scolastiche hanno grandemente contribuito a non esplicitare tale ruolo che è rimasto ambivalente, sospeso tra la funzione di riproduzione del capitale umano in chiave selettiva e quella di promozione dei giovani in chiave inclusiva. Quella che è mancata (tranne che nella legge 517/1977, che ha abolito i voti e le classi speciali, e in parte nel DPR 275/1999 sull’autonomia scolastica) è stata una chiara indicazione politica sulla finalità fondamentale delle riforme, cui collegare una coerente formazione iniziale e in servizio dei docenti.

Alla mancanza di una progettualità riformatrice forte ha corrisposto, sul versante del trattamento dei docenti, un atteggiamento attendista, che ha addirittura fatto passi indietro sulla formazione iniziale, sopprimendo prima la SSIS, poi il TFA, poi la FIS, insomma tutti i tentativi di arricchire la professionalità specifica degli insegnanti di scuola secondaria prima del loro reclutamento. E ha ridotto il reclutamento a ripetute e rassegnate assunzioni di massa dei cosiddetti precari, senza il cui apporto, peraltro, la scuola non avrebbe potuto funzionare.

Lo stato dell’arte al momento è questo. Una bella sfida per il governo Draghi, che sull’istruzione ha giocato una delle carte più importanti in occasione del suo insediamento, e per il ministro dell’istruzione Bianchi. Entrambi si mostrano consapevoli dell’importanza strategica dell’investimento nel capitale umano. È auspicabile che essi tengano ben presente il fatto che il successo di tale investimento dipenderà in larga misura dalla qualità dei principali attori chiamati a gestirlo, gli insegnanti.

 

Per approfondimenti:

Dispersione implicita, contro l’infarinatura a scuola, di Anna Maria Ajello