Coronavirus, quel cigno nero che cambierà la scuola italiana
Il coronavirus è certamente un cigno nero, un evento totalmente imprevedibile secondo la fortunata metafora proposta da Nassim N. Taleb nel suo libro del 2007 (The black Swan), che trae ispirazione dal fatto che l’esistenza di cigni diversi da quelli bianchi era stata ritenuta impossibile prima che alla fine del ‘600 fossero scoperti in Australia quelli neri. Un evento sconvolgente per gli zoologi del tempo.
L’immagine del cigno nero è stata poi utilizzata dagli economisti con riferimento alle conseguenze economiche di eventi imprevedibili come il crollo dei mercati finanziari del 1987 (l’indice Dow Jones perse il 22,6 % in un solo giorno), la distruzione delle torri gemelle del 2001 o il fallimento della banca Lehman Brothers (la usò anche Paolo Savona ipotizzando una ragione imprevedibile che avrebbe potuto costringere l’Italia a uscire dall’euro…).
Certamente il coronavirus ha le caratteristiche di un cigno nero che, apparso all’improvviso, erra per il mondo, e lo spaventa.
Ma a volte, come ha scritto Alessandro Baricco su ‘Repubblica’, è questo tipo di eventi a determinare svolte epocali, a inaugurare nuove fasi della storia. Potrebbe essere così anche per la scuola, dove per fortuna la rivoluzione di internet ha offerto la possibilità tecnica di avviare il grande esperimento in corso di didattica a distanza e di home schooling di massa.
Un’occasione per la scuola italiana, più tradizionalista e burocratizzata di quella di altri Paesi, per aprire una fase di vera, grande riforma, dando un senso compiuto all’autonomia delle comunità educative e alla creatività competente che molte di esse stanno manifestando proprio nelle attuali drammatiche circostanze. Sarebbe un errore imbrigliare le spinte innovative che emergono dalla scuola militante (stavolta l’aggettivo non è retorico) per ripristinare in qualche modo lo status quo. Anche per la scuola, per dirla sempre con Baricco, «c’è una partita che ci aspetta da un sacco di tempo. Che sciocchezza imperdonabile sarebbe avere paura di giocarla». (O.N.)
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