150°/3. Il maestro Benito Mussolini

Nei 150 anni di scuola dell’Italia unita, tra le migliaia di maestri impegnati ad alfabetizzare le masse, c’è stato anche un giovane romagnolo, dal nome allora sconosciuto di Mussolini Benito, che ha tentato per poco tempo la carriera di maestro di provincia in terra emiliana.

Dai registri conservati presso il Comune di Gualtieri (RE) risulta la sua nomina come supplente (dal 12 febbraio 1902), lo stipendio annuo percepito (700 lire) e l’assegnazione a due classi maschili (2.a e 3.a con 35 scolari iscritti) in un paesino vicino.

Nella relazione finale il giovanissimo (quasi 19enne) maestro Mussolini riporta, tra l’altro, queste osservazioni, sullo stato intellettuale e fisico degli alunni, sulla disciplina e sulla diligenza, introdotte da questa constatazione “Al termine dell’anno scolastico i gobbi lo erano ancora e idem dicasi dei deficienti. Per i primi la cura consigliabile è quella dell’Istituto ortopedico Rizzoli, per gli altri occorre un altro organamento della vita scolastica che dia agio all’educatore di porre in atto, almeno in parte, la trangugiata teorica pedagogica.”

Sulla disciplina il futuro duce rilascia dichiarazioni che avrebbe poi completamente dimenticato, affermando infatti che “la disciplina l’ho sempre ottenuta con mezzi semplicissimi: destando l’allettativa, l’interessamento, vigilando. Non è disciplina quella che si ottiene con mezzi coattivi. Comprime l’individualità infantile e genera tristi sentimenti. Il maestro deve prevenire e rimuovere le cause del male, per non dover poi dolorosamente reprimere”.

Sulla diligenza dei suoi scolari il maestro Mussolini scriveva così nella relazione finale: “Finché scuola e famiglia non saranno unite nell’opera educativa la vera diligenza resterà pio ed utopico desiderio. Come pretendere un foglietto pulito da un bambino che fa il compito nella stalla per dura necessità di cose? La pratica qui ebbe la salutare virtù di farmi buttare alle ortiche molta e forse ingombrante zavorra idealistica”.

E chiude così la relazione a proposito dell’esame finale dei suoi alunni: “mal si oppone al vero che crede con coscienza di giudicare la valentia d’un maestro dal numero dei presentati e dei promossi all’esame. Perché? Perché l’esame, fatto come si fa oggi, acquista i poco pedagogici caratteri di un giudizio di Dio e non sono rari i maestri che, unitamente ai bimbi, s’affidano alla medesima dea: la fortuna”.