Scuola e mercato/2. Domanda e offerta non si incontrano

Una recente ricerca della Fondazione Agnelli, realizzata in collaborazione con la Associazione italiana per la direzione del personale, giunge alla conclusione che dal punto di vista dei datori di lavoro, in occasione delle nuove assunzioni, un mediocre voto di laurea accompagnato da una buona conoscenza dell’inglese e da qualche anche limitata esperienza di lavoro vale più del 110 e lode di un neolaureato che non ha mai lavorato e magari sa tutto di Shakespeare senza possedere un fluent english.

Il fatto è che le aziende cercano giovani, possibilmente di età inferiore a trenta anni, che dimostrino di possedere competenze che le università non forniscono loro, come la capacità di lavorare in gruppo (la didattica e gli esami sono quasi tutti e quasi sempre individuali e disciplinari) o quella di applicare le conoscenze acquisite a casi concreti o in situazioni inattese (in Italia l’approccio dei professori alle materie è essenzialmente astratto, accademico).

Secondo la maggioranza (54%) dei 226 direttori del personale interpellati nella citata ricerca l’università italiana è addirittura peggiorata con l’avvento del 3+2, che pure mirava (anche) ad una maggiore professionalizzazione, mentre solo il 18% ha espresso una valutazione positiva.

Tra le eccezioni si colloca il Politecnico di Milano, dove l’80% dei neolaureati trova lavoro entro quattro mesi. Ma forse non è casuale che in quella università molti corsi siano tenuti in inglese (con severi test di ingresso per gli studenti che vogliono seguirli), che il piano di studi della laurea triennale preveda uno stage obbligatorio di tre mesi, e che la tesi di laurea alla fine del quinto anno debba essere preparata all’interno di un ambiente aziendale.