Risultati Invalsi, il commento dell’esperto: ‘Ecco perché non bisognerebbe anticipare l’ingresso alle elementari’

“L’idea di anticipare l’età di ingresso dei bambini in prima elementare è stata mal interpretata: in passato era legata solo a quei minori che, per effetto della data di nascita, avevano già effettuato i tre anni di scuola Materna e solo per qualche mese si decideva di evitare di fargli fare il quarto anno di Materna, che in effetti era di troppo. Di questa spiegazione è rimasta oggi, però, solo la possibilità di andare in prima elementare a 5 anni. Opzione considerata da molti genitori e insegnanti un attestato di merito per il figlio o per l’alunno, considerato intelligente”. Commenta così  a Dire Federico Bianchi di Castelbianco, psicoterapeuta dell’età evolutiva e direttore dell’Istituto di Ortofonologia (IdO) di Roma, le Rilevazioni Nazionali degli apprendimenti 2016-17 pubblicate dall’Istituto Invalsi, in cui si legge che gli alunni anticipatari (quelli che vanno in prima elementare a 5 anni) hanno punteggi in italiano e matematica che risultano inferiori a quelli dei loro compagni andati a scuola a 6 anni. Un gap che, in molti casi, si conserva anche alle superiori.

“La pratica clinica e terapeutica svolta in questi anni – continua lo psicoterapeuta – ha portato a determinare che sicuramente tutti i bambini che vanno a scuola a cinque anni sono normalmente intelligenti, ma la statistica ci porta a vedere che su 100 minori anticipatari il 30% arranca fortemente, il 40% fatica e il restante 30% risulta in linea con gli altri”. Cosa accade? “Quel 40% e 30% degli anticipatari che riescono negli studi danno nel tempo una sensazione di leggerezza e facilità. Un’immagine fallace – ricorda l’esperto – perché il 40% vive molte difficoltà. Invece quel 30% di bambini che veramente fatica, esplode poi in problemi di varia natura. Parliamo sempre di alunni intelligenti, la loro difficoltà nasce dal fatto di essere affettivamente immaturi. Hanno bisogno del terzo anno di Materna – sottolinea lo psicoterapeuta – come tutti i bambini d’altronde, e togliergli un anno significa sacrificarli sull’altare dell’efficienza e della prova”.

L’IdO affronta questa criticità da molto tempo, tanto che nel 2011 condusse una ricerca in 12 scuole pubbliche romane per dimostrare che la dislessia “non era un danno corticale, o un qualunque danno al cervello o ancora una disfunzione cerebrale – afferma il direttore – perché su 1.300 studenti, tra i bambini diagnosticati come dislessici – più opportunamente dovrebbero essere indicati come bambini con difficoltà di apprendimento – negli anticipatari la percentuale si attestava al 14%, mentre tra gli alunni andati a sei anni a scuola era al 3%. Dati che indicano – chiarisce Castelbianco – che la richiesta di prestazioni è esageratamente anticipata: i bambini a cinque anni non sono pronti, devono maturare, cioè frequentare il terzo anno della scuola dell’Infanzia, per passare dal secondo anno di materna – dove si realizza una vera attività di socializzazione, integrazione e gioco – a una richiesta di attenzione e prestazione in prima elementare. Di fatto questi piccoli alunni che vanno ‘male’ presentano tutti, a detta delle insegnanti, una difficoltà di attenzione, non stanno fermi, non capiscono, sono frettolosi nell’affrontare le cose. Lo fanno perché vogliono terminare subito – spiega lo psicoterapeuta – in quel momento per loro la scuola diventa ansiogena”.

L’Istituto Invalsi disegna poi una demarcazione netta tra il Centro-Nord e il Sud Italia sul tema degli anticipatari: “Nelle due aree settentrionali gli anticipatari sono meno dell’1%, sia nella scuola primaria che nella secondaria di primo e secondo grado, mentre nel Centro salgono leggermente, mantenendosi comunque intorno all’1%; nelle due aree meridionali e insulari, invece,raggiungono, in qualche caso, anche il 4%”.

Secondo il direttore dell’IdO questo divario è legato “alla tendenza di considerare che se un figlio va a scuola prima, il merito è di tutta la famiglia perché é la dimostrazione dell’intelligenza del proprio erede. Al Nord l’informazione pedagogica è arrivata prima – prosegue lo psicoterapeuta – hanno capito che mandare a scuola i bambini a cinque anni non li aiuta, anzi li penalizza. D’altra parte l’informazione nel mondo funziona così: parte dagli Stati Uniti, arriva in Inghilterra, attraversa l’Europa, scende in Italia e poi dal Nord passa al Sud. Un esempio adesso riguarda l’età di accesso al nido – dimostra l’esperto – adesso in America si sta dibattendo con toni molto accesi sull’opportunità di mandare i bambini al nido ad almeno 18 mesi di vita, invece che a sei. Questo perché non è vero che i bambini a 6 mesi sono già sufficientemente autonomi per essere separati dalla madre – sottolinea lo psicologo – è dimostrato che per godere di una maggiore autonomia affettiva e di serenità, il bambino dovrebbe avere almeno 18 mesi”.

C’è ancora un’ultima domanda: dare uno stipendio alle madri per tenerle a casa fino ad almeno un anno di età sarebbe poi così deficitario rispetto allo spendere soldi per creare asili nido? “Il discorso fu fatto in epoche non lontane – ricorda il direttore dell’IdO – si pensò che se i due genitori avessero lavorato entrambi, la maggiore entrata economica si sarebbe poi tradotta in una maggiore serenità mentale dei propri figli. Un concetto vero fino a un certo punto – precisa Castelbianco – non si può pensare che un anno di stipendio possa compensare l’assenza della madre. Andrebbero rifatti i conti – conclude – basti pensare quanti di questi bambini fanno pagare alla società i costi del loro ingresso troppo prematuro al nido, cosi’ come troppo prematuro alla scuola elementare”.