Destra e sinistra secondo Ricolfi: il caso della scuola

Il sottotitolo dell’ultimo libro del sociologo Luca Ricolfi (La mutazione, Rizzoli, novembre 2022), “Come le idee di sinistra sono migrate a destra”, è certamente e intenzionalmente provocatorio, ma merita attenzione da parte di chi si occupa di scuola perché alcune delle considerazioni sviluppate nel volume riguardano la visione alta dell’educazione che a giudizio dell’autore è stata storicamente elaborata e sostenuta dalla sinistra ma che poi è stata da questa abbandonata in nome di politiche inclusive dichiaratamente ugualitarie ma di fatto discriminanti per le fasce più sfavorite della popolazione scolastica.

Riprendendo alcune delle tesi presentate in un precedente saggio scritto insieme a Paola Mastrocola, Il danno scolastico (La Nave di Teseo, 2021), Ricolfi sostiene che per un lungo periodo, dominato dal pensiero di Antonio Gramsci, poi tradotto in azione politica e culturale da Palmiro Togliatti, la sinistra italiana ha sostenuto che solo una buona, seria e severa educazione di base (non di tipo professionale) avrebbe consentito ai ceti popolari di emanciparsi dal punto di vista sociale e culturale e di esercitare un ruolo egemonico nelle battaglie di segno progressista. Questa fu anche la convinzione del grande latinista Concetto Marchesi, che difese la presenza e il ruolo dello studio del latino nella scuola media in seno all’Assemblea costituente, e poi da deputato del PCI fino alla sua morte (1957). Linea che venne parzialmente sostenuta dal PCI anche in occasione del dibattito sull’unificazione della scuola media, la legge che inaugurò il primo centro-sinistra nel 1962, e contro la quale il PCI votò in Parlamento anche perché rendeva il latino obbligatorio solo per chi intendeva iscriversi al liceo ed era dunque discriminante. Meglio allora eliminarlo del tutto e per tutti.

Secondo Ricolfi furono allora gettate le premesse di una svolta che in pochi anni, complice il 1968 e la forte critica rivolta da don Milani (la “lettera a una professoressa” è del 1967) alla cultura “dei ricchi”, condurrà la sinistra – da lui identificata un po’ riduttivamente con il solo PCI – ad abbandonare la linea Gramsci-Marchesi per assumere quella della sociologia critica militante, ispirata in particolare da Bourdieu e Passeron, di denuncia e demistificazione della cultura dominante veicolata dai sistemi educativi vigenti in funzione della conservazione del potere e delle disuguaglianze.

L’inclusione, attraverso l’abbassamento (anziché l’innalzamento per tutti) della qualità degli studi è così diventata la nuova parola d’ordine, e questo a suo avviso ha danneggiato le classi popolari assai più che quelle privilegiate, che dispongono di altri mezzi per assicurare una buona formazione ai propri figli. “A vagare senza meta è soprattutto l’idea gramsciana della cultura alta come strumento di emancipazione dei ceti popolari”, mentre altri due caposaldi della sinistra storica, la difesa della libertà di pensiero e quella degli interessi dei più deboli, sono stati sconfessati per essere sostituiti dal “politicamente corretto” delle battaglie per le libertà civili individuali e minoritarie (al posto di quelle sociali e collettive) e dalla “incapacità di ascoltare la domanda di protezione dei ceti popolari” di fronte a fenomeni come l’immigrazione, la criminalità, la mancanza di lavoro, la caduta in povertà.

Così queste idee guida della sinistra storica, secondo Ricolfi, rimaste senza interpreti, sono state adottate dalla destra (o meglio, diremmo, dalla “nuova destra”), più vicina alla sensibilità popolare e alle sue paure. È quel fenomeno di scambio delle rispettive basi sociali (le élites con la sinistra, il popolo con la destra) che il sociologo torinese chiama “mutazione del sistema politico”. Una provocazione? Certamente, anche voluta dall’autore, ma un tema su cui riflettere senza pregiudizi. (O.N.)

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