Mastrocola&Ricolfi/1. L’autogol dei progressisti

Negli ultimi anni il sociologo Luca Ricolfi e l’insegnante scrittrice Paola Mastrocola, felicemente sposati da vent’anni, hanno progressivamente avvicinato i loro sguardi sulla realtà della scuola – nomotetico quello di Ricolfi, alla ricerca di un modello interpretativo generale di tipo teorico; idiografico quello di Mastrocola, narratrice attenta alle storie individuali – concentrandoli sulla questione della capacità della scuola italiana di fungere da ascensore sociale, di essere cioè una scuola “democratica”, amica dei “capaci e meritevoli” di cui parla la Costituzione italiana.

La conclusone cui giungono entrambi, per vie diverse come lo sono i loro sguardi, è drasticamente negativa, ed è contenuta nel volume a doppia firma “Il danno scolastico”, pubblicato dalla Nave di Teseo (ottobre 2021), che reca un sottotitolo apodittico, definitivo: “La scuola progressista come macchina della disuguaglianza”. 

L’ipotesi che la scuola delle riforme ispirate alla democratizzazione della scuola abbia finito invece per danneggiare i ceti popolari, formulata da Mastrocola nel 2017 in un articolo pubblicato dalla Fondazione Hume (presieduta da Ricolfi), basato sulla sua esperienza personale di insegnante, è stata sottoposta negli anni successivi a verifiche di tipo statistico quantitativo da parte di Ricolfi, sociologo e docente di Analisi dei dati nell’università di Torino, che l’ha pienamente confermata.

Il volume affianca alle testimonianze personali degli autori (i due capitoli intitolati “Con i miei occhi” raccontano il loro vissuto da insegnanti) l’esito della ricerca condotta da Ricolfi, che applicando un suo modello di analisi (illustrato in una corposa appendice tecnica) giunge alla conclusione che l’abbassamento degli standard di prestazione richiesti agli studenti nell’intento di favorire l’inclusione e la prosecuzione degli studi degli studenti di più modesta estrazione sociale ha finito invece per amplificare il vantaggio dei ceti alti nei confronti di quelli bassi, perché a questi ultimi è stata sottratta la chance di competere con gli altri facendo valere la qualità degli studi scolastici compiuti, mentre i ceti alti hanno provveduto via via a rafforzare la formazione dei loro giovani con esperienze extrascolastiche, dalle lezioni private ai corsi all’estero. Un classico esempio di eterogenesi dei fini, o di conseguenze perverse dell’azione sociale, per usare il linguaggio di Raymond Boudon.

Il libro di Mastrocola e Ricolfi ha ricevuto una quantità di critiche da parte di chi ha letto nelle loro tesi un appello al ripristino della selettività degli studi e al ritorno alla scuola e università “di prima”, e dunque al carattere classista dell’istruzione, ma gli autori respingono queste accuse, ribadendo il loro punto di vista: “la scuola senza qualità è una macchina che genera disuguaglianza”, e la responsabilità è “della cultura progressista e ha inteso la democratizzazione non come mettere la cultura alta a disposizione di tutti, ma come ‘diritto al successo formativo’” (pag. 219).

L’analisi sul carattere tuttora classista della scuola italiana può essere sostanzialmente condivisa, perché è la stessa che in modi diversi hanno fatto in molti, da don Milani a buona parte della sociologia dagli anni Sessanta dello scorso secolo ad oggi. Ma che cosa propongono gli autori di questo volume-ricerca? Quasi nulla. Probabilmente non era tra gli scopi del volume. Ma che cosa si dovrebbe fare per realizzare una scuola effettivamente democratica, inclusiva, e che premi i “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi”?  Proviamo a parlarne nella notizia successiva. (O.N.)

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