Dopo il referendum: il no è anche alla Buona Scuola?
Come era da aspettarsi, e come molti di essi avevano preannunciato, gli avversari della Buona Scuola hanno accolto il no al referendum costituzionale anche come un no a una delle riforme simbolo dell’avventura politica renziana, quella della scuola.
Al di là del merito dei quesiti oggetto di referendum, il voto del 4 dicembre ha assunto un significato politico generale: no alle politiche del governo Renzi in campo sociale (Jobs Act, pensioni anticipate), in politica estera (mancato accoglimento da parte della UE della richiesta di maggiore flessibilità finanziaria, isolamento dell’Italia sulla questione dell’immigrazione), nella politica economica (crescita del PIL insoddisfacente, spesa pubblica sempre altissima con conseguente blocco degli investimenti, troppe ‘mance’ come quella dei 500 euro ai diciottenni, crisi delle banche), e nella politica scolastica, dove la Buona Scuola, che già aveva dovuto superare forti resistenze in Parlamento e tra i sindacati, si è in parte arenata nelle sabbie mobili di una mobilità mal concepita e peggio governata.
La bocciatura della riforma costituzionale (e, nella sostanza, anche di quella elettorale) ha significato soprattutto il rifiuto del decisionismo renziano, reso possibile dall’ampia maggioranza di cui Renzi poteva disporre in Parlamento grazie alla vigente legge elettorale (che sarà però probabilmente rivista dalla Corte Costituzionale in senso proporzionale).
Se avesse vinto la partita del 4 dicembre, Renzi avrebbe ricevuto una forte legittimazione del suo metodo di governo. La sconfitta, con la riconferma del bicameralismo e nella prospettiva del ritorno al proporzionale, assume il significato del rifiuto a larga maggioranza (il 60%) dell’approccio decisionista. E il rilancio di quei corpi intermedi, come i sindacati, a partire da quelli della scuola, che Renzi aveva messo in secondo piano nel tentativo di stabilire un dialogo diretto con l’opinione pubblica e gli utenti del servizio scolastico.
Si profila un ritorno alle mediazioni e alle lentezze della Prima Repubblica? Il Paese si sta condannando ad accumulare ulteriore ritardo nella via del superamento di limiti storici che ne limitano la competitività? Il rischio c’è, ma in questo passaggio si deve confidare nel fatto che il primo a rendersene conto sia il presidente Sergio Mattarella, a suo tempo artefice di una legge, legata al suo nome, che puntava a conciliare rappresentanza e governabilità. Un obiettivo che torna ora di grande e urgente attualità, ma che deve fare i conti con la novità emersa a partire dalle elezioni del 2013: la tripolarizzazione (almeno) del quadro politico, che spinge anch’essa in direzione del ripristino del proporzionale.
La riforma in tal senso della legge elettorale sarà un obiettivo prioritario per Matteo Renzi (da segretario del PD) e per Paolo Gentiloni, scelto da Mattarella per la rapida formazione del nuovo governo.
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