La scuola del dopo-virus: tre scenari possibili

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Da qualche tempo si parla molto di scuola sui giornali e nei social, ma non si riesce ad alzare lo sguardo oltre l’emergenza da Coronavirus: quella di stretta attualità, legata alla conclusione dell’anno scolastico in corso e agli esami di maturità e di licenza media, e quella a breve termine, che riguarda le condizioni della ripresa delle attività didattiche a settembre 2020.

Il dibattito sul ruolo strategico, e sullo stesso destino, del nostro sistema educativo, non decolla, come ha dimostrato lo scarso interesse suscitato dall’appello alla ‘classe dirigente’, a partire dagli imprenditori, a investire nel ‘capitale umano’ lanciato dall’ex direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli. Anche il dibattito sul ruolo delle tecnologie a sostegno di una didattica rinnovata nei luoghi e nei tempi dell’apprendimento, positivamente avviatosi nelle prime settimane di pandemia attorno ad alcune esperienze avanzate di DaD, ha ceduto il passo alla diffusa voglia di ‘normalità’, trovando in Asor Rosa l’alfiere dell’insostituibilità della ‘classe’ e della tradizionale didattica in presenza.

I sindacati, che in altri momenti della loro storia (150 ore, gestione sociale della scuola) avevano svolto un ruolo di avanguardie dell’innovazione, si sono progressivamente chiusi nella ordinaria amministrazione, nella ricorrente stabilizzazione di generazioni di precari e nella difesa di uno stato giuridico forse garantista ma costantemente appiattito su un mediocre ugualitarismo, che ha fatto rima con ingiustizia, perché tratta nella stessa maniera chi fa ben poco (e magari svolge un’altra professione in nero) e chi si impegna al massimo, aggiornandosi costantemente e andando ben oltre l’orario e spesso gli obblighi di lavoro. Invece di incentivare l’impegno si è scelto un meccanismo opposto. E’ ingeneroso e riduttivo considerare i sindacati i maggiori “responsabili della dequalificazione della figura dell’insegnante”, come sostiene Ernesto Galli della Loggia, ma è difficile negare che, anche al di là delle intenzioni, essi hanno contribuito – con differenze tra le varie organizzazioni e senza sottovalutare l’apporto fornito su tanti fronti – alla sua ingessatura, per usare un’immagine di Luisa Ribolzi, operando di fatto in senso conservatore. Alla base però c’è la scarsa e miope priorità assegnata all’istruzione nelle scelte fatte negli ultimi decenni da tutte le forze politiche che si sono avvicendate alla guida del paese, che hanno guardato alla scuola più come terreno di scambio elettorale che come motore per lo sviluppo del paese (forse la stagione renziana ha provato ad alzare lo sguardo, ma ha giocato male le sue carte).

Se la classe dirigente italiana nel suo complesso (imprenditori, top manager, ma anche intellettuali, opinion leader e vertici delle grandi associazioni sindacali e professionali) mostra di non essere pronta a investire sulla scuola in termini strategici (lo fa solo parzialmente anche il gruppo che ha lavorato con Colao: ne parliamo in una notizia successiva) diventa sempre più probabile che tra i tre scenari disegnati dall’OCSE all’inizio del secolo – la descolarizzazione (la scuola sostituita dalla rete), la riscolarizzazione (riforme) e la stagnazione conservatrice – sia quest’ultima a prevalere. Eppure non mancano proposte che puntano sul secondo scenario, quello riformatore, come le due di cui parliamo nella notizia successiva.