
I laureati che insegnano guadagnano il 26,6% in meno di chi fa altri lavori. In USA. E in Italia?

Negli Stati Uniti d’America il mestiere di insegnante è tra i meno graditi dai neo laureati anche perché continua ad essere tra i meno retribuiti, e anzi vede ulteriormente peggiorare la sua posizione rispetto ad altre professioni accessibili con il medesimo titolo di studio. E questo è all’origine di un fenomeno sempre più pesante e preoccupante, il cosiddetto teachers shortage: si fa sempre più fatica a trovare insegnanti, specie quelli più qualificati.
Un recente studio a firma di Sylvia Allegretto, economista senior presso il Center for Economic and Policy Research e ricercatrice associata presso l’EPI (Economic Policy Institute), il cui sito dà notizia della ricerca, conferma che nonostante il recente piccolo miglioramento dell’1,7% nella retribuzione media settimanale degli insegnanti, la distanza retributiva tra gli insegnanti delle scuole pubbliche e i laureati che hanno scelto altre professioni rimane ampia.
Il divario tra i salari settimanali degli insegnanti e quelli dei laureati che lavorano in altre professioni è cresciuto fino a raggiungere la punta massima del 26,6% nel 2023, con un fortissimo aumento rispetto al 6,1% nel 1996.
In media, gli insegnanti hanno guadagnato 73,4 centesimi per ogni dollaro rispetto ai guadagni di altri professionisti simili nel 2023, molto meno dei 93,9 centesimi per ogni dollaro che guadagnavano nel 1996. Anche se gli insegnanti in genere ricevono pacchetti di benefit migliori rispetto ad altri professionisti, questo vantaggio in termini di benefit è ben lontano dal compensare la loro crescente penalizzazione salariale. Peggio ancora sarebbe a nostro avviso perpetuare il patto al ribasso “ti pago poco e ti chiedo poco” che ha (purtroppo) radici profonde nella storia del nostro sistema di istruzione (un esempio per tutti: nel 1907 “la retribuzione di un maestro rurale era più o meno uguale a quella di un operaio” e “in ogni caso, il livello medio retributivo di un maestro era quello più basso dell’impiego statale”, come si legge in “Storia e storie della scuola italiana”, la grande opera di Nicola D’Amico).
Tornando agli Usa (ma come si vede, ogni mondo è paese), la situazione però non è la stessa nei diversi Stati perché diverse sono le loro politiche scolastiche e sociali. Il 26,6% è un dato medio, che va dal 38,4% del Colorado al 9,0% del Wyoming. Un dato non lontano dal circa 30% che si registra in Italia e anche altrove. Gli stipendi medi effettivi degli insegnanti sono dappertutto nettamente inferiori a quelli di altri lavoratori con un livello di istruzione terziaria analogo, salvo che nei pochi Paesi dove gli stipendi solo alti (in Europa, per esempio, la Germania, la Danimarca e la Svizzera) oppure lo stipendio è magari basso ma il prestigio sociale alto (molti orientali, per esempio il Giappone).
Allegretto nelle conclusioni del suo studio sottolinea che “la qualità dell’istruzione pubblica dipende in gran parte dai nostri sforzi per prenderci cura del personale docente e finanziare adeguatamente le scuole. Troppo spesso e in troppi luoghi non riusciamo a realizzare uno dei nostri ideali più alti come nazione: la nostra promessa di educare ogni bambino senza riguardo ai mezzi. Questa è una questione di volontà politica, con profonde implicazioni per i nostri figli, le loro famiglie, la comunità e il futuro della nostra nazione”.
Purtroppo, non sembra che la questione sia oggetto di particolare attenzione da parte dei candidati alla presidenza degli USA. E neanche in Italia lo è mai stata, a giudicare dalla storia.
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