‘La mia scuola con Don Milani’. Intervista a Nevio Santini

Nevio Santini conosce bene Barbiana, esattamente dal 1962, quando ci salì per la prima volta. Era la scuola più vicina a casa, quella raggiungibile a piedi e l’unica in grado di accoglierlo senza condizioni. È rimasto a Barbiana per cinque anni, ha partecipato ai viaggi studio in Inghilterra e Francia, era presente quando si scriveva, tutti insieme e con la tecnica della scrittura collettiva, la “Lettera a una professoressa”, capolavoro della scuola di Barbiana. Da Barbiana non è più sceso, almeno metaforicamente, rimanendo a disposizione delle migliaia di persone che ogni anno incontra per presentare la vita di quello che lui chiama semplicemente “il Priore”. Perché don Milani, come ama dire Nevio era un prete, un maestro, un padre. Lo abbiamo intervistato.

Qual è il tuo ricordo di Don Milani? Chi era per te?
«Un ricordo da adolescente di un sacerdote completamente diverso dagli altri, lo dico a ragion veduta visto che avevo fatto il sacrestano nella mia parrocchia e ne avevo conosciuti diversi. È stato per me un maestro di vita che mi ha voluto molto bene, essendo io un figliolo bisognoso di dialogo e cultura umana come si accorse dopo appena pochi mesi passati insieme. A quell’età si sente chi ti vuole bene».

Come sei arrivato alla scuola di Barbiana? Ci racconti come erano organizzate le giornate, cosa si faceva?
«Sono arrivato a Barbiana alla scuola di Don Milani dopo aver fatto un’esperienza a 12 anni da un fabbro a 7 km di distanza da casa mia, non rendendomi conto della mia giovane età e dell’importanza di andare a scuola, ma a casa facevano comodo le mie poche lire che guadagnavo lavorando. Dopo quattro mesi, scelsi Barbiana, a Vicchio nel 1961 non c’erano le scuole medie. La giornata iniziava alle 8 in punto dopo aver percorso un’ora tra campi, boschi e fiumi. Dovevamo arrivare 20 minuti prima per ricevere le medicine, ovviamente solo chi ne aveva bisogno, ed essere visitati dal fratello, che era medico, che saltuariamente saliva con la mamma del Priore a Barbiana. I genitori erano tranquilli per l’assistenza sanitaria. Alle otto dovevamo stare tutti a sedere. Due classi condividevano la stessa aula, un’altra era in una stanza adiacente con i nostri amici più grandi che facevano da maestri. Non avevamo registri e nemmeno lavagne, ma solo tanti libri con quaderni e matite. Alle 12 mangiavamo quello che la mamma ci aveva preparato nel tegamino, formato da due scomparti riscaldato sui fornelli a gas. Mancavano luce e acqua potabile, non c’era la strada per salire fino a Barbiana, ma una stretta mulattiera. Alle tredici facevamo insieme un’ora di lettura dei quotidiani, poi svolgevamo i compiti che ci davano da fare i nostri amici maestri. Se il Priore però trovava nella lettura del giornale qualche articolo che voleva che approfondissimo tutti insieme, potevamo dire addio all’organizzazione standard della giornata e tutti i compitisi rimandavano al giorno dopo e potevamo rimanere insieme a discutere anche fino alle venti. In estate era anche un divertimento, ma l’inverno era molto triste, specialmente con la neve e il buio. Questa organizzazione della giornata valeva per 365 giorni l’anno».

Perché l’insegnamento di Don Milani è così sentito e dirompente a oltre quarant’anni dalla sua morte?
«Quello di Don Milani era un insegnamento a quei tempi rivoluzionario e provocatorio, nell’accezione positiva del termine, di un maestro e sacerdote che voleva fare dei suoi figli non dei sudditi ma dei giovani sovrani consapevoli degli ostacoli da superare nel tempo e aveva chiaro, questo maestro e sacerdote, che l’unico modo per farlo era la cultura e la scuola. Quando arrivai lassù ero un ragazzo timido e pauroso, sono stati sufficienti tre anni nei quali fui formato a tal punto da mandarmi in Francia, a Lione, da solo per quattro mesi a lavorare. Una volta tornato a Barbiana ebbi l’opportunità di andare in Inghilterra per 10 mesi a lavorare in una fabbrica metalmeccanica, tutto questo con l’obiettivo di farmi imparare le lingue straniere. Avevo solo 17 anni. Questo tipo di esperienze erano un po’il nostro Erasmus,solo che l’abbiamo fatto almeno trent’anni prima che venisse realizzato. Il suo insegnamento è ancora moderno: non aveva escogitato grandi regole o invenzioni, ma ha preso il Vangelo, lo ha aperto e lo ha seguito alla lettera. Il suo maestro lo ha aiutato a salire a Barbiana e gli ha promesso che da lassù avrebbe preso il volo per criticare anche la sua “ditta”, così il Priore chiamava la Chiesa in alcune occasioni. La sua vita, di fatto, è stata spesa per costruire una scuola e una chiesa aperta ai poveri, ai figli di operai e contadini. Oggi i giovani dovrebbero sentirsi più responsabili per cambiare una scuola sempre più industria e meno istruzione, caratterizzata da tempi sempre più stretti e orientata al profitto. Per essere propositivi occorre saper accogliere oggi l’invito che ognuno riceve nel proprio intimo a scegliere di chi occuparsi. La frase “I care” che il Priore scrisse sulla porta a Barbiana fu messa dove chiunque salisse a Barbiana potesse vederla chiaramente. Fece questo perché voleva sottolineare il suo significato “me ne occupo, mi interessa, mi sta a cuore” è questa la traduzione migliore ed è il contrario del motto fascista “me ne frego”. A distanza di molti anni la scritta è ancora al suo posto e il messaggio sempre attuale».

Ci può raccontare un aneddoto in grado di farci capire il pensiero di Don Milani in tema di scuola?
«L’aneddoto che mi viene in mente fu il “recupero “di un allievo che non riusciva a legare con gli altri. Improvvisamente un giorno se ne andò via, senza dire nulla a nessuno. Allora, spontaneamente, corsi insieme ad alcuni amici verso di lui per cercare di fargli cambiare idea e riportarlo a scuola, ma, una volta che si accorse di noi iniziò a tirarci i sassi chiedendoci di andare via. Io mi avvicinai e cercai di parlargli tranquillamente, facendogli capire quanto gli volessimo bene. Riuscii a prenderlo per un braccio e lo convinsi a tornare a scuola, accompagnandolo fin sotto la pergola dove il Priore stava facendo scuola e, vedendo che eravamo tornati, mi diede un bacio in fronte e mi ringraziò per averlo riportato. Avevo 14 anni e sapevo che per il Priore perdere un ragazzo era come perdere un pezzo di sé stesso».

Leggi l’articolo integrale nel numero 631 di Tuttoscuola

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