Formazione in servizio dei docenti: quando l’obbligo diventa un optional

Per anni la formazione in servizio per gli insegnanti è stata considerata contrattualmente un diritto, rimesso alla responsabile scelta degli interessati. I contratti nazionali avevano infatti cancellato la previsione (datata 1974) della formazione e aggiornamento come diritto/dovere, fino a quando la legge “Buona scuola” (n. 107/2015) al comma 124 aveva disposto che Nell’ambito degli adempimenti connessi alla funzione docente, la formazione in servizio dei docenti di ruolo è obbligatoria, permanente e strutturale.

Alcuni sindacati erano stati costretti a fare buon viso di fronte a quell’obbligo, forse soddisfatti da quanto previsto dalla Buona Scuola a favore dell’aggiornamento.

La stessa legge aveva infatti previsto un sostegno agli insegnanti per facilitare la formazione in servizio, istituendo la carta del docente esentasse dell’importo annuo di 500 euro, finalizzata a sostenere la formazione continua dei docenti e di valorizzarne le competenze professionali.

Stranamente, però, nel Contratto Collettivo Nazionale Integrativo per il Piano di formazione dei docenti l’incipit del comma 124 che parla di formazione obbligatoria è stato omesso, dando spazio al testo successivo sulle competenze delle istituzioni scolastiche.
Si direbbe, insomma, che qualcuno abbia ancora allergia per quell’obbligo.

Lo dimostrerebbero anche talune reazioni alla presentazione di un decreto ministeriale che potrebbe prevedere per l’a.s. 2021/2022 l’obbligo di formazione di tutti i docenti che hanno nelle proprie classi alunni disabili per 25 ore (17 in presenza e/o a distanza e 8 per sperimentazioni o progettazioni).

La FGU-Gilda degli Insegnanti ha sottolineato che questa norma è in contrasto con il CCNL 2016/2018 che definisce la formazione come diritto/dovere e non come obbligo (sic!).

Ma una certa allergia all’aggiornamento sembra che riguardi comunque un po’ molti docenti, come emerge dall’utilizzo della carta del docente di cui ha parlato recentemente Il Sole24ore.

Soltanto il 3,6% di quei 500 euro è stato utilizzato per l’iscrizione a corsi per attività di aggiornamento e di qualificazione delle competenze professionali.

Se nei primi anni di utilizzo della carta poteva essere comprensibile l’aver dato la precedenza all’acquisto di hardware e software, successivamente si poteva sperare che la formazione fosse tenuta in maggiore considerazione.

Forse sarebbe opportuno prevedere un limite minimo di scelta (20% del bonus?) per corsi di aggiornamento, in modo da rendere effettivamente permanente e strutturale l’aggiornamento.

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