Tuttoscuola: Il Cantiere della didattica

Velo islamico. No in Francia, sì in Gran Bretagna, ni in Italia

Shabina Begum, allieva musulmana quindicenne di un istituto vicino a Londra, potrà indossare a scuola la jilbab (tunica integrale con velo). Lo ha deciso una corte di appello inglese accogliendo le richieste dell’avvocato della studentessa, Cherie Booth, moglie del premier Tony Blair, rovesciando una precedente sentenza di segno opposto.
Se fosse stata allieva di una scuola francese (però pubblica), Shabina sarebbe stata espulsa, perché la nuova legge francese, in vigore dal settembre 2004, vieta i capi di abbigliamento “ostentatamente” rivelatori di una appartenenza religiosa.
Dopo qualche mese di tregua, il dibattito sui simboli religiosi a scuola riprende, e torna a caricarsi di significati più ampi, che implicano scelte di valori, modelli di rapporto tra l’individuo e la società, diverse strategie di integrazione o di convivenza tra gruppi etnici e religiosi di diversa provenienza. La Francia, in coerenza con la sua tradizione laica e aconfessionale, ha optato per il primato della legge (che a tale tradizione si riallaccia) sul diritto individuale a manifestare la propria appartenenza religiosa anche attraverso gli abiti. La “cittadinanza” e il principio di uguaglianza non ammette deroghe. La Gran Bretagna con questa sentenza si muove invece nella direzione opposta, e in coerenza con la sua tradizione liberale difende il diritto individuale alla diversità delle scelte etico-religiose, che vengono prima di qualunque regola pubblica.
E l’Italia? Da noi, dopo un inizio di dibattito che sembrava promettente, tutto sembra essere rifluito in una torpida rimozione del problema. Sulla carta, siamo più vicini al normativismo dei francesi, di fatto al pragmatismo tollerante degli inglesi. Ma se di abbigliamento si discute, riguarda i pantaloni a vita bassa…

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