Università/2. Valore legale e valore reale delle lauree

In seno al Consiglio dei ministri che ha affrontato la questione il confronto si è polarizzato, a quanto riferiscono le cronache, sul problema della partecipazione ai concorsi pubblici, il cui primo requisito è sempre stato il possesso di determinati titoli di studio.

Il fatto è che per una serie di ragioni in Italia all’aumento del numero delle lauree (peraltro insufficiente a formare più laureati, come dimostrano le comparazioni internazionali: 19,8% dei 30-34enni contro la media europea del 33,6%) non ha corrisposto un aumento della loro qualità.

Anzi, la moltiplicazione dei corsi e delle sedi, l’irruzione delle università telematiche, il facile riconoscimento di ‘crediti formativi’ (CFU) ai lavoratori di determinati settori soprattutto pubblici, i molti appelli per sostenere gli esami (8 in un anno) e la maggiore facilità con la quale essi possono essere superati, dovuta anche a una certa maggiore indulgenza dei professori (non tutti, non ovunque), tutto questo ha contribuito a rendere il possesso del titolo di studio un requisito di per sé non dimostrativo delle effettive conoscenze e competenze dei candidati che concorrono ad un pubblico impiego.

C’è dunque con ogni evidenza, come dimostrano le assunzioni nel settore privato, una diversa qualità dei titoli a seconda di dove e come essi sono stati ottenuti. Far emergere e far pesare questa diversità consentirebbe di ottenere almeno tre risultati: incentivare l’impegno di professori e studenti per una migliore qualità dell’insegnamento/apprendimento; accrescere le chances degli studenti più preparati (a parità di voto di laurea) di vincere un concorso pubblico, migliorando l’efficienza delle pubbliche amministrazioni; mettere fuori mercato quelle tra le 77 università italiane dove voti e titoli sono assegnati, per dir così, con eccessiva e sospetta generosità.