Università/1. L’abilitazione nazionale

Il Consiglio dei ministri ha approvato la scorsa settimana il primo e probabilmente il più delicato dei molti decreti attuativi della riforma dell’università, quello sul reclutamento dei docenti universitari.  

È significativo che il governo abbia varato il provvedimento alla prima occasione utile dopo la pausa natalizia, senza attendere i 90 giorni di tempo che pure la legge prevedeva per l’emanazione del decreto: segno della volontà dell’esecutivo, e del ministro Gelmini, di stringere i tempi per dare all’università e all’opinione pubblica una dimostrazione di determinazione ed efficienza pur in un momento di grave difficoltà politica del governo e del suo presidente.

Il regolamento introduce anche per l’università l’istituto, finora solo scolastico, della abilitazione come condizione per l’accesso a posti sia di associato che di ordinario. L’abilitazione sarà attribuita annualmente da una commissione nazionale di 5 studiosi, di cui uno straniero o italiano attivo all’estero, non più eletti (per evitare accordi e cordate) ma estratti a sorte tra coloro che presentano un curriculum scientifico di qualità. I posti saranno successivamente attribuiti a seguito di procedure pubbliche di selezione bandite dalle singole università, cui potranno accedere solo gli abilitati.

È interessante e positivo che, a differenza di quanto avviene nella scuola (almeno in Italia), l’abilitazione non sia a vita, ma scada dopo quattro anni, come è giusto che sia in un settore che fa  della ricerca e della capacità di innovazione il fondamento della propria legittimazione.

Per certi aspetti, e con motivazioni e procedure diverse, un meccanismo del genere potrebbe rivelarsi utile anche per la scuola, che pure già prevede una abilitazione di base: si potrebbe per esempio ipotizzare una abilitazione avanzata o di secondo livello per svolgere particolari funzioni in una posizione intermedia (anche economicamente) tra quella dell’insegnante semplice e quella del dirigente scolastico.