Tempo di esami: da mito a rito

La settimana si apre oggi all’insegna degli esami conclusivi del primo e del secondo ciclo. Gli esami, come è noto, sono in Italia previsti dalla Costituzione “per la ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi” (art. 33, comma 5), e sono stati pensati anche in funzione del controllo che lo Stato si riserva di esercitare sui livelli di apprendimento raggiunti dagli alunni nelle diverse scuole che compongono il sistema nazionale di istruzione, sia statali sia paritarie.

Non a caso il comma segue quello che tratta delle “scuole non statali che chiedono la parità”, alle quali va assicurata “piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali”.

L’intenzione dei costituenti, come risulta dal dibattito, era quella di garantire, nel medesimo tempo, la “piena libertà” delle scuole (di tutte però, non solo di quelle non statali) e il diritto dello Stato di verificare i risultati raggiunti dagli alunni tramite esami di Stato.

Poi però le cose sono andate assai diversamente, avendo i governi del dopoguerra mantenuto il modello organizzativo centralistico ereditato dalla tradizione e rafforzato dal fascismo, e non dato attuazione alla norma sulla parità fino alla legge n. 62 del 2000, che comunque tale modello centralistico non ha scalzato, come non lo ha fatto se non modestissimamente la normativa sull’autonomia delle istituzioni scolastiche.

Nel frattempo l’avvento della scuola di massa e il venir meno del carattere selettivo e di controllo dell’esame di Stato hanno trasformato la mitica ‘maturità’ e l’impegnativo esame di licenza media in stanchi riti: cerimonie in cui si prende atto della conclusione dei cicli e non si valuta nulla, o quasi. Se il rito resiste, è solo in omaggio al precetto costituzionale: alla sua forma però, non al suo spirito.