Scuola e politica, gli effetti del ritorno al proporzionale

Scuola e politica

A distanza di quasi tre mesi dal referendum del 4 dicembre 2016 prendono sempre maggiore consistenza le conseguenze politiche del voto: quelle di carattere generale, che investono la vita dei partiti e del governo, e quelle riguardanti le politiche di settore, da quelle del lavoro (dal Jobs Act alla rivolta neoluddista dei taxisti) a quella della scuola e degli insegnanti, di cui molto di discute nel processo di scomposizione-ricomposizione del Partito democratico e degli altri soggetti che si richiamano alla tradizione e ai valori della sinistra.

Quanto al governo, la conseguenza immediata della sconfitta referendaria si è tradotta nelle dimissioni di Matteo Renzi da presidente del Consiglio e nella sostituzione del solo ministro dell’istruzione nel nuovo governo Gentiloni: una chiara ammissione di responsabilità da parte di Renzi – rimasto segretario del Pd e dominus della formazione del nuovo governo – nell’aver sottovalutato l’impatto negativo della Buona Scuola sugli insegnanti e sul loro voto nel referendum. L’avvento della ex sindacalista Cgil Valeria Fedeli alla guida del Miur ha avuto il significato di un’autocritica.

Ma è l’intreccio tra il no referendario e il contemporaneo rilancio del sistema elettorale proporzionale effettuato dalla Corte costituzionale a determinare le conseguenze politiche di maggiore rilievo, come mostrano le vicende di questi giorni. L’affossamento del sistema elettorale maggioritario ha ridato spazio e ruolo a soggetti politici interessati a marcare la propria identità e a cercare visibilità e rappresentanza in Parlamento. La scuola, insieme al lavoro, è al centro delle ragioni e delle piattaforme programmatiche con le quali si stanno costituendo tali soggetti, da ‘Sinistra italiana’ guidata dal neosegretario Nicola Fratoianni al costituendo nuovo raggruppamento ‘Democratici e Progressisti’ che fa capo all’ex segretario del Pd Bersani e a Roberto Speranza, spinti e incoraggiati da Massimo D’Alema.