Primo ok per la riforma dell’università

Con dodici i voti a favore (Pdl, Lega, Gruppo delle autonomie) e nove contrari (Pd) la commissione Istruzione del Senato ha approvato il disegno di legge di riforma dell’università. L’Italia dei Valori non ha partecipato al voto. Il testo, che ha subito numerose modifiche in commissione, approderà abbastanza speditamente in aula: ai primi di giugno sarà infatti inserito nel calendario dei lavori di Palazzo Madama.

La principale novità riguarda la valutazione di docenti e ricercatori. Ogni tre anni i docenti dovranno presentare una relazione sull’attività svolta, e se la valutazione sarà negativa non percepiranno scatti di stipendio. Gli importi così risparmiati serviranno a premiare i docenti migliori.

E’ stato soppresso l’obbligo di cumulare 1.500 ore annue tra didattica e ricerca: quest’ultima non dovrà essere certificata. Per i Consigli di Amministrazione è caduto l’obbligo del 40 per cento di membri esterni. I rettori, il cui mandato non potrà superare gli otto anni, potranno essere dimissionati dal Senato Accademico, ma solo con una maggioranza di tre quarti dei suoi componenti. I provvedimenti disciplinari a carico del personale, infine, verranno decisi dai singoli atenei, attraverso un collegio di disciplina.

Per il futuro non ci saranno più i ricercatori a tempo indeterminato: i nuovi ricercatori potranno avere due contratti triennali, al termine dei quali saranno valutati. Potranno così accedere all’abilitazione nazionale e entrare in ruolo come docenti (previa chiamata) o anche lavorare nell’ambito della Pubblica Amministrazione oltre che, ovviamente, nel settore privato.

Per i “vecchi” ricercatori ri ruolo, che in pratica diventano una categoria ad esaurimento, il problema più grande è il blocco dei concorsi per la mancanza di fondi. Ma anche per i nuovi assunti con i contratti a termine non ci sarebbe la certezza della conferma e di una prospettiva di carriera, pur in presenza di valutazione positiva, ove persistesse la carenza di fondi, che a questo punto diventa il vero punctum dolens della riforma Gelmini.