Tuttoscuola: Il Cantiere della didattica

PASSI AVANTI NELL’INSEGNAMENTO DELLE LINGUE STRANIERE

La recente quinta edizione del rapporto Eurydice sull’insegnamento delle lingue straniere offre l’occasione per fare il punto della situazione non solo europea ma in ciascuno dei 25 paesi che compongono l’Unione. Dal rapporto possono ricavarsi tre chiare linee di tendenza: una verso la precocizzazione (ci si passi il brutto neologismo), cioè verso l’abbassamento dell’età in cui viene inserita la lingua straniera nel curricolo scolastico; un’altra verso il crescente predominio della lingua inglese; infine, un orientamento, in verità ancora più auspicato che effettivamente attuato, verso la differenziazione delle lingue apprese. Quest’ultima tendenza può sembrare in contrasto con la precedente ma non lo è se si tiene conto che la differenziazione avviene in virtù dell’incremento, soprattutto nella scuola post-primaria, dell’offerta di lingue.


Attualmente nella maggior parte dei paesi europei l’insegnamento obbligatorio di una lingua straniera comincia nella scuola primaria. Si tratta di uno sviluppo recente, nel quale l’Italia ha giocato un ruolo pionieristico, tanto da occupare tuttora i primissimi posti per diffusione percentuale di tale disciplina tra gli alunni più giovani. Nel decennio immediatamente successivo alla legge 148 del 1990 di riforma dell’allora scuola elementare, che per la prima volta introduceva una lingua straniera nel curricolo primario, si è riusciti a interessare la quasi totalità delle classi. Nell’anno scolastico 2001-02, l’83 % degli alunni della scuola primaria fruivano di tale insegnamento, un risultato più che lusinghiero, perlomeno sotto l’aspetto quantitativo, vieppiù se si considera che la riforma escludeva le classi prime.


Nell’UE l’inglese, come si dice, la fa da padrone: è la lingua più diffusa in tutti i gradi di scuola e, a partire dal 1990 si è andata progressivamente affermando anche nei paesi dell’Europa centro-orientale, dove in passato era obbligatorio l’apprendimento della lingua russa. Di fatto l’inglese viene assumendo sempre più le caratteristiche di lingua franca. Seguono a notevole distanza il tedesco, il francese e lo spagnolo. L’italiano, sebbene percentualmente occupi un posto molto modesto rispetto alle lingue appena citate, può essere studiato nella scuola dell’obbligo di ben 12 paesi dell’UE.


A livello europeo sta prendendo forma un modello secondo il quale la prima lingua che gli alunni incontrano a scuola è l’inglese, mentre l’apprendimento di altre lingue è rinviato ai gradi successivi di istruzione, dove sono introdotte una seconda e in taluni casi una terza lingua. Le prescrizioni relative all’insegnamento esclusivo dell’inglese nella scuola primaria contenute nel Decreto legislativo del n. 59 del 2004 non solo sono in linea con gli orientamenti che si manifestano in altri paesi ma riportano coerenza in un sistema che, per quanto ispirato da apprezzabili principi pedagogici e culturali, era difficile gestire proprio dal punto di vista della continuità dei percorsi educativi.


Nel Consiglio Europeo di Barcellona del 2002 i capi di stato e di governo concordarono sulla necessità che i cittadini europei padroneggiassero almeno due lingue oltre a quella materna. Questo rientra nel più ampio disegno di trasformare l’Europa in un’avanzata economia basata sulla conoscenza che va sotto il nome di strategia di Lisbona. Dal punto di vista più circoscritto delle politiche linguistiche ciò implica una differenziazione delle lingue insegnate. Come si è visto in precedenza in molti casi questa differenziazione si risolve a favore del tedesco e del francese ma in alcuni paesi l’offerta delle lingue è molto variegata come in Francia e Germania dove sono offerte ben 13 lingue nell’ambito del ciclo obbligatorio degli studi di cui alcune extra-europee. In Italia le lingue disponibili sono solo quattro, qui qualcosa di più andrebbe fatto anche per aprire l’Italia oltre i confini del vecchio continente che dal punto di vista linguistico divengono sempre più angusti, soprattutto in tempi di globalizzazione planetaria.


Come noto l’apprendimento è una funzione del tempo: in principio più tempo vi si dedica migliori sono i risultati. Le lingue non dovrebbero sfuggire a tale regola. Eurydice ha calcolato che nell’a.s. 2002-03 nella scuola dell’obbligo italiana venivano dedicate almeno 803 ore all’apprendimento della lingua straniera, una quantità piuttosto ragguardevole che colloca il nostro paese tra i primi cinque d’Europa. Come si spiega allora quello che il CENSIS, nel suo ultimo rapporto ha definito “la difficile relazione tra gli italiani e le lingue straniere”. Occorre tener presente, in via preliminare, che in Italia una politica attiva delle lingue straniere è relativamente recente, fu solo con la riforma della scuola elementare del 1990 che il legislatore prese coscienza dell’urgenza di intervenire in questo settore. I primi risultati cominciano ora a vedersi. Proprio il citato rapporto CENSIS mette in evidenza come tra i giovani la conoscenza di una lingua sia molto più diffusa che nel resto della popolazione. Nella fascia di età 18-29 anni il 70,2 % dichiara di sapere almeno un’altra lingua, di contro una media generale del 38,5 %. Certo c’è ancora circa un terzo di giovani refrattari alle lingue. Un fenomeno niente affatto trascurabile. La quantità di tempo, ovviamente, non è la sola variabile dell’apprendimento e forse neanche la più importante: la qualità dell’insegnamento è altrettanto fondamentale.


Prima di toccare la complessa questione della qualità è interessante notare una diversa distribuzione oraria tra i livelli di istruzione che caratterizza l’Italia rispetto alla maggior parte dei paesi europei. Da noi il tempo dedicato alla lingua straniera nella scuola primaria, sia in termini assoluti sia in proporzione alle altre discipline, è sensibilmente più alto della media europea che si aggira intorno alle 30-50 ore annuali. Nella scuola secondaria accade il contrario, cioè è inferiore alla media. Il Decreto legislativo del 17 ottobre 2005 non modifica sostanzialmente questo rapporto, anche nel caso in cui le famiglie ricorrano alla possibilità offerta dal controverso art. 25 e optino per la sostituzione della seconda lingua comunitaria con l’inglese. In quest’ultima ipotesi, vedremmo l’Italia salire ancor più in alto nella classifica del tempo dedicato all’apprendimento della stessa lingua straniera. Un primato che, non accompagnato da paralleli progressi nell’apprendimento delle lingue, sarebbe, purtroppo, solo negativo.


Mancando un indicatore della competenza linguistica condiviso è difficile verificare rigorosamente se il “modello italiano”, quello cioè di un forte investimento nell’educazione linguistica precoce sia più efficace di quello adottato dalla maggior parte dei paesi europei. A questo proposito sempre il Consiglio Europeo di Barcellona aveva sollecitato lo sviluppo di tale strumento in modo da rendere possibile misurare e comparare i progressi dei singoli stati membri, tuttavia poco o nulla è stato ancora fatto. In attesa di un simile indicatore non rimane che affidarsi all’evidenza aneddotica la quale, con tutte le cautele del caso, sembra confermare la nostra “difficile relazione con le lingue”. Un punto critico è sicuramente la competenza specifica di numerosi docenti di scuola primaria a insegnare questa nuova disciplina. Molto si è investito per la preparazione dei docenti sin dai primi anni ‘90 ma c’è ancora molto da fare, soprattutto se si vuole che ciascun docente abbia una buona padronanza della lingua che insegna. Lo stesso ministero, nel riprendere dopo qualche anno, la formazione linguistica in servizio dei docenti, segnala una situazione di profonda diversificazione professionale.


In tempi di ristrettezze finanziarie vale la pena interrogarsi sul rapporto costi-benefici di un forte investimento nella scuola primaria in generale e in particolare nella formazione linguistica in servizio di tutti i docenti e chiedersi se non sia più opportuno pensare da un lato ad un prolungamento della fase transitoria, continuando a fare affidamento su docenti specialisti (che insegnano solo la lingua straniera) o semi-specialisti (che affiancano alla lingua altre discipline) e, dall’altro introdurre rimedi strutturali, i quali sicuramente necessitano tempi lunghi ma risolverebbero alla radice la questione, come ad esempio richiedere tra i prerequisiti di accesso agli istituendi corsi di laurea magistrale la conoscenza certificata dell’inglese almeno a livello B2 del quadro comune europeo di riferimento.

 

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