“Chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi...”. Posto da Mario Draghi, che ha vissuto buona parte della sua vita in ambienti anglofoni, questo interrogativo ha ridato fiato a un’antica polemica e speranza a chi, come Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, respinge l’accusa di provincialismo, spesso rivolta a chi cerca di evitare l’uso di termini inglesi quando esistono gli equivalenti italiani.
In alcune aree tematiche, soprattutto tecnico-scientifiche, in recente e rapido sviluppo, la cosa si spiega: gli equivalenti italiani di computer o e-mail o DNA esistono, ma non sono entrati nell’uso corrente, e si sono aggiunti a parole come tennis o cocktail già da tempo importate nel vocabolario italiano. In altri casi se ne potrebbe fare a meno. In campo educativo esistono testi, anche governativi, in cui abbondano parole come input, output, outcomes, task-force, target, digital divide, dropout, mentre di recente si sta diffondendo learning loss, e tante altre che potrebbero essere benissimo sostituite da termini italiani, anche più di uno a seconda del contesto. Provincialismo? Forse si tratta di dipendenza anche psicologica dalla cultura socio-psico-pedagogica (e tecnologica) anglo-americana del dopoguerra che ha pesantemente influito sulle corrispondenti discipline di studio italiane.
L’egemonia economico-militare degli USA si è esercitata anche sul versante linguistico, determinando una situazione di privilegio per i madre lingua inglesi e creando difficoltà ed equivoci per tutti gli altri, costretti ad usare il ‘loro’ inglese nelle comunicazioni internazionali: un inglese – salvo che nei casi di bilinguismo originario (può essere il caso dei figli di immigrati se immersi fin dalla prima infanzia nel contesto linguistico anglo-americano) – impoverito ed essenzializzato, fonte di fraintendimenti. Lo notava Alessandro Manzoni a proposito del francese (nell’Ottocento lingua veicolare come lo è oggi l’inglese), nei suoi scritti sulla lingua, citati da Donatella Palomba, docente di Educazione comparata nell’università di Roma Tor Vergata, in una lezione dottorale tenuta la scorsa settimana sul tema “Comparazione educativa tra traduzione e tradizione”.
Ci sono parole, come per esempio Education, che in italiano (o in un’altra lingua diversa dall’inglese), a seconda del contesto, può significare Istruzione o Educazione e Formazione professionale. Pedagogy in genere significa Didattica, mentre Didactic può significare Didascalico e così via.
Per questo nelle traduzioni e nelle interazioni linguistiche (convegni, dibattiti) occorre chiarire l’esatto senso del termine inglese impiegato. A maggior ragione quando a incontrarsi e a dibattere sono non anglofoni. È un po’ singolare – ma succede – che a dibattere in inglese siano italiani tra di loro. Quanto va perduto dell’esatto significato che il parlante italiano assegna alle sue parole quando usa l’inglese? Va sempre ricordato che le neuroscienze hanno dimostrato che se l’apprendimento della traduzione di una parola in un’altra lingua avviene dopo i cinque anni circa, il termine non entrerà a far parte del substrato profondo della memoria, perché sarà stato acquisito esclusivamente come informazione fonetica (cioè uditiva) e ortografica, non come concetto. La seconda lingua se viene acquisita dopo l’infanzia è mediata, infatti, da sistemi neurali non identici a quello della lingua madre. Se non è proprio indispensabile usare l’inglese (perché, per esempio, ci sono interlocutori stranieri) è meglio che i dibattiti tra italiani si svolgano in italiano. Ci sarà sempre tempo, dopo, per fare una (buona) traduzione in inglese.
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