Panebianco azzecca la diagnosi, ma la cura è sbagliata

Secondo Angelo Panebianco, editorialista del Corriere della Sera, il cattivo stato del sistema educativo italiano è la causa principale della cattiva qualità del dibattito pubblico che si svolge nel nostro Paese, perché alla mediocre preparazione fornita mediamente da scuola e università (capaci comunque di produrre una sia pur esigua minoranza di “diplomati e di laureati di primissimo ordine, i quali, per preparazione, possono mangiarsi a colazione i pur bravi laureati di altri Paesi occidentali”) fa riscontro la mediocrità del dibattito – da quello televisivo a quello che si sviluppa sui social– infarcito di banalità, pregiudizi, luoghi comuni e fake news.

È una tesi condivisa da molti analisti, da Giuseppe De Rita e Ernesto Galli della Loggia a Sabino Cassese, che per vie diverse fanno risalire la maggiore responsabilità della cattiva qualità del nostro sistema di istruzione agli insegnanti: non selezionati, non formati, e retribuiti tutti nella identica misura, quelli bravi e quelli incapaci, con la complicità di un sindacalismo troppo spesso miope e di una classe politica interessata a guadagnarne il consenso elettorale a breve (come anche gli eventi di questi giorni confermano) che al rafforzamento del sistema formativo in un arco temporale che non può che essere di medio-lungo periodo.

Se su questa ricerca delle responsabilità è possibile in buona sostanza convenire, più difficile è concordare sulla cura che Panebianco propone, che è quella di rilanciare gli studi scientifici e tecnici imponendo il numero chiuso “in tutti i corsi di laurea umanistici”, visto che “ci mancano laureati in diverse discipline scientifiche, non nelle umanistiche” e spiegando agli studenti delle scuole medie e superiori che, “fatta eccezione per coloro che possiedono vocazione autentica per gli studi umanistici o sociali, scegliere un curriculum universitario nell’ambito delle scienze ‘dure’ dà le migliori garanzie di trovare un lavoro di soddisfazione”. 

In pratica l’editorialista del ‘Corriere’ non mette in discussione l’impianto del sistema di istruzione italiano, limitandosi a proporre il riorientamento delle scelte tra i diversi indirizzi secondari e universitari in favore di quelli tecnico-scientifici e sollecitando un maggior rigore nell’assegnazione dei voti, valorizzando anche le valutazioni Invalsi (“le scuole che preparano meglio (ma aggiungo: anche le Università) sono quelle che hanno scelto il rigore, che non regalano voti alti a tutti”).

Personalmente non sono d’accordo, salvo che sulla valorizzazione delle prove oggettive (ma non con l’obiettivo, indicato da Panebianco, di pervenire in tal modo a “valutare (finalmente) il lavoro dei singoli docenti”). A mio giudizio è proprio l’impianto strutturale del sistema di istruzione italiano che va cambiato rendendo i percorsi individuali molto più personalizzati, prevedendo passaggi e passerelle nei primi due anni, eliminando ogni forma di esclusione e ripetenza fino ai 18 anni (termine degli studi secondari: un anno in meno) e collegando gli studi secondari a quelli post-secondari. Gli ITS dovrebbero essere rafforzati e portati a tre anni riutilizzando nel loro contesto parte delle risorse umane (insegnanti) e tecnologiche (laboratori) degli attuali istituti tecnici.  

I diplomi dovrebbero essere sostituiti dalla certificazione delle competenze (con valore legale), al termine di esami centrati sui temi disciplinari e interdisciplinari scelti dal singolo studente ma che tengano conto anche degli apprendimenti non formali e informali che egli eventualmente dimostri di possedere.

Quanto agli insegnanti la via maestra per valorizzarne il ruolo e le competenze non è quella del merit pay, cui sembra alludere Panebianco quando propone di collegare i compensi dei docenti ai risultati dei loro alunni nelle prove Invalsi, e non solo perché questo collegamento produrrebbe una forte spinta verso il teaching to the test. Meglio puntare sulla articolazione delle funzioni e delle carriere (middle management, particolari specializzazioni, tempo pieno per alcune figure), cui collegare la differenziazione dei compensi, e su una formazione obbligatoria, iniziale e in servizio, che guardi alla personalizzazione dei percorsi di studio individuali e alla digitalizzazione della didattica.   

Non ci sembra, purtroppo, che l’attuale contesto politico conceda al nostro Paese troppe possibilità di procedere nella direzione indicata (personalizzazione, digitalizzazione, certificazione), che è tuttavia quella verso la quale si muovono nel mondo le sperimentazioni più avanzate, quelle che guardano a un futuro ormai prossimo e incalzante.