Maturità 2021: il curriculum della discordia
La maturità 2021 sarà, come abbiamo già rilevato, un esame fortemente personalizzato, e non solo perché consisterà in una unica prova orale in presenza, senza prove scritte (come l’anno scorso), che muoverà dalla discussione di un elaborato presentato dal candidato, ma anche perché per la prima volta al diploma maturità 2021 sarà affiancato il curriculum dello studente, diviso in tre parti: carriera scolastica ed eventuali altri titoli posseduti (educazione formale), certificazioni di tipo linguistico, informatico o altro (educazione non formale), attività extrascolastiche svolte in ambito professionale, sportivo, musicale, culturale e artistico, di cittadinanza attiva e di volontariato (educazione informale).
Sarà così data applicazione a una norma della legge 107/2015, disciplinata dal Decreto legislativo 62 del 2017, la cui finalità era quella di dare consistenza e visibilità a tutte le competenze comunque rilevanti sul piano formativo acquisite dal candidato a conclusione degli studi secondari, comprese le esperienze di alternanza scuola-lavoro.
Una forma di “asservimento nei confronti del cosiddetto ‘mondo del lavoro’”, ha tuonato Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera (5 maggio), al quale la scuola italiana “si incarica” di fornire il “tracciamento caratteriale” del candidato e futuro lavoratore attraverso “Un esame un po’ classista” (titolo del suo editoriale) anziché limitarsi a verificare e certificare il sapere da lui acquisito.
Una tesi condivisa dallo storico dell’arte Tomaso Montanari e anche dal filosofo Massimo Cacciari, che però dichiara all’AdnKronos di apprezzare il carattere “almeno non ipocrita” del curriculum, visto che non fa che rendere visibile la effettiva disuguaglianza di condizioni e opportunità tra gli studenti.
A difendere le ragioni della valutazione, in sede di esame di maturità 2021, delle esperienze acquisite dallo studente per via non formale o informale, interviene sempre sul Corriere della Sera (7 maggio) e in una ampia intervista a Tuttoscuola, Giorgio Vittadini, docente di Statistica all’università di Milano Bicocca e presidente della Fondazione per la Sussidiarietà. “Nell’era digitale”, è la sua tesi, “la scuola non può limitarsi a insegnare solo nozioni, sia pure fondamentali, come la lettura o la matematica”, ma deve stimolare e valutare anche le “character skills”, come “l’apertura mentale, la capacità di collaborare, lo spirito di iniziativa”, aspetti della personalità che si manifestano spesso nelle esperienze formative extrascolastiche, che meritano dunque di essere incoraggiate e valutate.
Con tutto il rispetto per i nostalgici della “scuola in grembiule, solennemente egualitaria” (copyright di Montanari), quella della maturità di un tempo, ci sembra che la scuola delle competenze – tutte, comprese quelle personali e tecnologiche – sia al confronto assai meno aristocratica e selettiva. Insomma, meno classista. (O.N.)
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