Maturità 2017: tra rito e mito
Maturità 2017/1
In attesa delle novità, comunque non sconvolgenti, attese per il 2019 (soppressione della ‘terza prova’ locale, maggior peso ai crediti scolastici, test Invalsi obbligatori, da sostenere prima dell’esame, ma non incidenti sul suo esito) la maturità 2017 ha preso il via per oltre 505.000 candidati (489.000 interni e 16.000 esterni).
La percentuale degli ammessi all’esame è stata del 96,3% (l’anno scorso fu del 95,8%), e tutto fa presumere che quella dei diplomati sarà non troppo diversa da quella del 2016: 99,2%. Come non troppo diversi, a meno di improbabili sorprese, saranno commenti e osservazioni sull’esito delle prove, storicamente più favorevole ai candidati di alcune Regioni del Sud, almeno da quando le Commissioni sono state costituite su base territoriale.
Poche novità sotto il sole, dunque. Routine ordinaria ed esito prevedibile. Insomma, un rito. Eppure anche quest’anno i media, social e non, hanno caricato l’evento di significati rilevanti dal punto di vista simbolico, con cronache, servizi e interviste centrati sull’importanza quasi vitale dell’esame per i ragazzi che lo sostengono, sul valore quasi iniziatico della “prova conclusiva degli studi secondari”, come Luigi Berlinguer provò a ribattezzare la Maturità vent’anni fa forse proprio nel tentativo di ridimensionarne il valore emblematico. Insomma, il mito.
Non ci riuscì lui, e neppure i suoi successori, e fin che la scuola secondaria sarà strutturata per piani di studio e indirizzi definiti centralmente su base essenzialmente disciplinare, l’esame conclusivo continuerà ad essere un rito, perché si celebrerà più o meno nelle stesse forme. Meno rituale e scontato potrebbe essere un esame che giungesse al termine di percorsi formativi fortemente personalizzati. È probabile invece che resisterebbe il mito, per il significato di discontinuità esistenziale che l’esame continuerebbe ad avere.
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