Ma le nostre maestre sono cattive o esaurite? C’è una terza spiegazione

L’INTERVENTO
di Vittorio Lodolo D’Oria*

Da quasi trent’anni mi occupo di malattie professionali degli insegnanti ed è oramai acclarato che l’80% delle inidoneità all’insegnamento per motivi di salute è dovuto a disturbi psichiatrici. Così, quando nel 2015 fui chiamato a occuparmi dei Presunti Maltrattamenti a Scuola (PMS) da parte delle maestre, mi venne spontaneo ipotizzare che tali comportamenti fossero la fisiologica conseguenza di un esaurimento psicofisico del docente. A supporto della tesi vi erano quattro elementi probatori:

  1. Le malattie professionali anzidette che sono per 4/5 di natura psichiatrica.
  2. La recente riforma previdenziale (Fornero) che cominciava a generare i suoi effetti sulla salute dei docenti.
  3. L’età media delle maestre indagate che era di 56,4 anni e l’anzianità di servizio di 33.
  4. Se la natura dei comportamenti fosse stata imputabile a un’indole malvagia della persona, questa si sarebbe manifestata subito a inizio carriera.

Dal 2015 a oggi mi sono occupato direttamente di 35 procedimenti penali (34 F e 1M) leggendo ogni atto giudiziario disponibile, visionando ore di filmati e raccogliendo ogni elemento utile a comprendere la realtà dei fatti anche attraverso visite mediche. Dai colloqui con le maestre emergeva un dato sconcertante: tutte le insegnanti non intendevano nascondersi dietro un malessere e sostenevano di non essere esaurite dal punto di vista psicofisico (solo una presentava disturbi psichici importanti), mentre si dicevano esclusivamente mortificate per il modo ingiustificato col quale si chiudeva la loro carriera che ritenevano di aver svolto in modo impeccabile.

Altro elemento inquietante era la scarsissima rispondenza che rilevavo tra le immagini registrate di nascosto dagli inquirenti e le trascrizioni cartacee delle videoclip “negative” che venivano accuratamente selezionate, estrapolate e decontestualizzate per essere poi montate in un trailer rappresentativo di una situazione surreale. Se poi aggiungiamo che non esistono tempi contingentati per le audiovideoregistrazioni (il GIP autorizza a sua discrezione le intercettazioni su richiesta del PM), che mediamente sono di 300-400 ore, comprendiamo come sia praticamente impossibile sfuggire a una condanna. A tale metodo, noto agli operatori come “pesca a strascico” si aggiunga il fatto che il “trailer negativo”, montato da inquirenti tutti rigorosamente non addetti ai lavori che pertanto nulla sanno di scuola, educazione e pedagogia, rappresenta solo lo 0,1% delle registrazioni totali. Ciò starebbe a significare che gli stessi inquirenti nulla hanno da eccepire sul 99,9% del comportamento professionale delle maestre indagate. Tuttavia, detta parte del filmato non sarà visionata né valutata dai giudici nella sua interezza, aprendo alla decontestualizzazione più selvaggia e lasciando spazio all’interpretatività degli inquirenti (es. atto di contenimento di un disabile grave diviene maltrattamento; uno scappellotto viene trascritto come percossa violenta etc).

Ecco dunque spiegato l’arcano: se non è colpa dell’indole della maestra, né del suo eventuale esaurimento psicofisico, ecco che il maggior responsabile del fenomeno dei PMS risiede evidentemente nei metodi d’indagine inadatti al mondo della scuola adottati dagli inquirenti non addetti ai lavori. Come ci ricorda Gherardo Colombo nella sua recente intervista sul “Dubbio” del 26.06.19 – di cui riprendiamo i passaggi salienti – tali metodi richiamano gli strumenti utilizzati dalla Stasi nella Germania Est nel celebre film “Le vite degli altri”.

Il giudice dapprima sottolinea che “…il ricorso così frequente a qualsiasi forma di controllo possibile dipende dalla sfiducia che esiste da parte delle istituzioni verso i cittadini; dei cittadini nei riguardi delle istituzioni e dei cittadini tra di loro”. Quindi aggiunge che “Ci sono due diritti costituzionalmente garantiti: quello alla riservatezza e quello alla sicurezza”. Qui vale la pena aggiungere che, nel ricorso alle videointercettazioni nella scuola, non si tratta solo della violazione del “diritto alla riservatezza” della persona intesa come individuo, ma vi è anche quella del “diritto alla riservatezza” del soggetto in quanto lavoratore esplicitamente sancito dall’art.4 dello Statuto dei Lavoratori. Il magistrato quindi riassume le regole: “Le intercettazioni possono essere autorizzate solo per determinati gravi reati; solo se esistono gravi indizi di colpevolezza; solo se risultano assolutamente indispensabili ai fini della prosecuzione delle indagini e infine, se nel domicilio, solamente se si sta consumando l’attività criminosa”. E qui vale fermarci per due ulteriori considerazioni: i maltrattamenti a scuola non sembrerebbero costituire grave reato a giudicare dai tempi lunghi d’intervento della giustizia (mesi d’indagini che nulla hanno di prevenzione primaria come spiegherà più sotto lo stesso Colombo) e soprattutto perché nessuno dei reati contestati è mai stato un episodio drammatico, o di sangue, come quelli che invece avvengono sistematicamente all’interno delle mura domestiche. La scuola è di fatto e in assoluto l’ambiente più sicuro che un bambino possa frequentare.

Il giudice Colombo passa poi a elencare le perplessità già evidenziate dal sottoscritto sui metodi d’indagine utilizzati nella scuola: “Peraltro, non dimentichiamo che si tratta di forme di controllo assai incerte. Perché fotografano, filmano o registrano dei momenti completamente avulsi dal resto. Quando facevo il magistrato affrontavo le intercettazioni con grandissima cautela perché un conto è leggere e un conto è sentire”.

Lungi da affermazioni generiche il magistrato si riferisce esplicitamente alla scuola dell’Infanzia e afferma: “Pensiamo alle telecamere negli asili. In quel caso sembra diventi più importante acquisire la prova rispetto all’esigenza di tutelare le persone. La telecamera filma, per dire, per tre mesi i maltrattamenti verso i bambini e solo dopo tre mesi si fa la notizia di reato. Così viene privilegiata la repressione rispetto alla prevenzione. La ricerca della prova in questo modo confligge con la prevenzione del maltrattamento”.

Ma c’è ancora spazio per un’ultima imprescindibile domanda del giornalista: Stiamo dicendo che le intercettazioni cosiddette a strascico sono una violenza?” E senza alcuna titubazione Colombo risponde senza mezzi termini: A rigore dovrebbero essere impossibili. Se infatti leggiamo le disposizioni del Codice del 1989, dovremmo essere garantiti da quel pericolo. Forse non è sempre così. Poi ovviamente bisogna fare delle distinzioni. Se pensiamo ai reati di associazione — mafiosa, terroristica, delinquenziale — è giustificabile l’idea che l’intercettazione possa essere legittima praticamente sempre. Perché l’attività dell’associazione a delinquere è continua”. Che l’azione della “pesca a strascico” sia tutto fuorché indolore, lo documentano i fatti. Chi, come il sottoscritto, conosce le dinamiche delle indagini, sa bene che le stesse cominciano solitamente tenendo sotto controllo una sola maestra ma, proprio grazie alla pesca a strascico, le indagate aumentano di numero a dismisura (di recente a Collegno 7 maestre su un organico di 9).

E proprio questi metodi d’indagine, utilizzati nella scuola come fosse un’organizzazione “mafiosa, terroristica, delinquenziale”, determinano il fenomeno dei PMS che è peraltro risolvibile tempestivamente, e senza lungaggini giudiziarie, attraverso il semplice intervento del dirigente scolastico che è chiamato a tutelare l’incolumità degli alunni.

A fronte del crescente fenomeno (esclusivamente) “italico” dei PMS (70 maestre indagate in 28 procedimenti penali a fine giugno 2019 contro i 47 indagati in tutto il 2018), delle perplessità sui metodi d’indagine adottati nella scuola, delle cautele cui invita un autorevole magistrato, come si concilia l’inspiegabile silenzio delle istituzioni, dei sindacati, delle associazioni di categoria? Sarà a causa di questa latitanza che, non a caso, il giudice Colombo chiude auspicando l’apertura di un dibattito.

*Vittorio Lodolo D’Oria, 58 anni, è medico specialista, si occupa delle malattie professionali degli insegnanti dal 1992, sviluppandone prevenzione, cura e aspetti medico-legali. Ha formato docenti di oltre 400 Istituti Scolastici del Paese ed è autore di pubblicazioni scientifiche nazionali e internazionali sull’argomento. Ha scritto Scuola di Follia (Armando Editore-2005), La Scuola Paziente (Alpes Italia-2009), Pazzi per la Scuola (Alpes Italia-2010). Ultimo volume pubblicato: Insegnanti, salute negata e verità nascoste (Edises-2019). Ha effettuato consulenze per MIUR, USR, sindacati e associazioni di categoria sullo Stress Lavoro Correlato. Si occupa come perito del fenomeno dei “presunti maltrattamenti dei bimbi a scuola”. E’ possibile seguirne l’attività e i convegni su www.facebook.com/vittoriolodolo Email: dolovitto@gmail.com