L’insegnante non basta più

Mettere l’allievo al centro dell’azione educativa e didattica significa occuparsi non più soltanto dell’alfabetizzazione culturale, ma della formazione di tutte le dimensioni della sua personalità e cioè prestare attenzione agli aspetti emotivi, affettivi del singolo, in relazione con gli altri nella comunità scolastica e sociale. Lavorare sul soggetto significa farsi carico di tanti bisogni educativi, che non sono “speciali” in quanto afferenti a portatori di patologie, ma ogni alunno/a ha caratteristiche che la scuola deve aiutare a sviluppare per potersi formare una personalità e costruire un proprio progetto di vita e di lavoro. È ormai consolidato che il processo formativo deve essere individualizzato, in modo che ognuno possa trarre il meglio di sé, che oggi si ama definire merito, in relazione con le sollecitazioni dell’ambiente in cui vive. È qui che la scuola può fare la differenza, offrendo da un lato impulso all’ulteriore sviluppo delle potenzialità in un contesto che favorisce il raggiungimento delle eccellenze, ma dall’altro esercitare un’azione di compensazione la dove la povertà educativa mette a rischio il successo formativo, provocando abbandoni o conseguendo scarse capacità rispetto alle esigenze richieste dalla società contemporanea.

Ecome può la scuola intervenire per tenere sotto controllo entrambe queste condizioni: far leva sulla riorganizzazione dei saperi e su una didattica che sostenga il recupero delle competenze, anche attraverso l’introduzione di figure professionali che facciano da trait d’union tra i contenuti e coloro che devono apprendere, esercitando un reciproco adattamento. un grande contributo è rappresentato dalla gestione comunitaria della scuola stessa, che aiuta a valorizzare l’esperienza di studenti e famiglie nel territorio ed allo stesso tempo la fa progredire con l’analisi della realtà e del cambiamento, con la partecipazione della società civile ed economica.

Nel corso degli anni abbiamo assistito all’introduzione di specialisti ai quali delegare le difficoltà incontrate dagli insegnanti, come ad esempio medici per le vaccinazioni di massa in contrasto con le malattie infettive o per migliorare l’integrazione dei soggetti portatori di handicap, ma anche al tentativo di spalmare tali competenze sui compiti istituzionali della scuola, come ad esempio la promozione della salute, evidenziata dalla riforma sanitaria e da una consistente produzione legislativa sulla prevenzione delle tossicodipendenze. In questa nuova prospettiva un ruolo importante è stato attribuito alla psicologia, per migliorare la conoscenza delle persone, sia come soggetti in formazione, sia in quanto capaci di una vita associata. strutture sanitarie chiamate consultori pluridisciplinari e centri per l’orientamento gestiti dai comuni, che a loro volta dovevano interagire con le tematiche e i luoghi dell’educazione, ma anche in quest’ultimo caso numerosi pronunciamenti ministeriali, nonché le indicazioni programmatiche per i diversi gradi scolastici, tentarono di trasferire alla didattica ordinaria la funzione orientativa, con tutte le problematiche connesse al dialogo sociale nei confronti delle scelte che i giovani dovevano compiere per il loro futuro formativo e professionale.

Non si trattava tanto di offrire agli insegnanti conoscenze psicologiche per la gestione dei loro rapporti con gli studenti, ma al contrario, dato che altre patologie stavano interessando la vita degli istituti, iniziò a farsi largo l’idea di prevedere la figura dello psicologo nella scuola come attività di supporto all’azione educativa, a stretto contatto con i docenti stessi. sembrava che fin dagli inizi del secolo si fosse raggiunto un equilibrio tra la presenza di tali professionisti nella sanità territoriale, in stretta collaborazione con le realtà scolastiche, ma venne il tempo delle vacche magre e i tagli del finanziamento pubblico al settore sanitario privilegiarono la cura e conseguentemente la medicina, diminuendo o addirittura eliminando la componente psicologica dal servizio generalizzato alla collettività.

Nessuno si preoccupò di comunicare tale tendenza alle scuole, le quali si trovarono sempre più sole ad affrontare i problemi della salute psichica ed anche nel settore della disabilità molte incombenze ricaddero sugli insegnanti di sostegno che lamentavano scarsa preparazione ad affrontare gli aspetti clinici.

Leggi l’articolo integrale nel numero 632 di Tuttoscuola

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