La professione degli insegnanti, un’autonomia da ricostruire

L’educazione sarà, e non occorre essere profeti per dirlo, qualcosa di molto diverso da ciò che per esperienza siamo abituati a considerare. Basti tener conto della rapidità dei cambiamenti intervenuti nel corso del Novecento per rendersi conto che tutti gli aspetti che concorrono a determinare il modo in cui si sviluppa la proposta educativa hanno assunto caratteri che in precedenza sarebbe stato difficile immaginare. Ciò vale per i soggetti coinvolti nell’attività educativa (dentro e fuori la scuola), per il rapporto che si è venuto stabilendo fra la scuola e la società, per i valori e la cultura che costituiscono, per così dire, la materia prima dell’educazione formale. Se ci soffermassimo a considerare fenomenologie riconducibili a esperienze limitate (come sono quelle che si possono compiere all’interno di un determinato paese), finiremmo col perdere di vista l’educazione come funzione essenziale nel percorso evolutivo della specie umana. Ne abbiamo parlato in un pezzo firmato da Benedetto Vertecchi pubblicato sul numero di Tuttoscuola di dicembre.

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Non è facile prescindere da aspetti contingenti. Per lo meno, non è facile farlo quando di continuo si è sollecitati a prendere atto di decisioni sulle quali il giudizio più garbato che si possa esprimere è che sono irragionevoli. Le modifiche che senza tregua intervengono nell’organizzazione e nelle pratiche educative solo accidentalmente sono in relazione le une con le altre. Si riconoscono come valide soluzioni che basterebbe un po’ di buon senso per capire che non dureranno molto più dell’espace d’un matin. È proprio ciò che non dovrebbe accadere, anche nell’ipotesi, veramente azzardata, che siano assunte decisioni delle quali si sia in grado di spiegare le ragioni. Il cambiamento è presentato come una necessità, senza che in buona parte dei casi si sappia spiegare perché certi comportamenti non siano più considerati adeguati, o perché si debba ritenere che altri lo siano: nell’uno come nell’altro caso, sarebbe necessario sviluppare un’argomentazione. Ma si direbbe che argomentare sia ormai l’ultima delle preoccupazioni di chi reca la responsabilità di orientare il funzionamento del sistema educativo, con la conseguenza di rendere sempre meno sensibili alle conseguenze degli interventi irragionevoli sul sistema proprio chi subirà le conseguenze negative delle decisioni assunte.

Nel confronto educativo si è affermato una sorta di mitridatismo: non si sa come giustificare una decisione? Basta dire “Ce lo chiede l’Europa”. Si vuol tagliare di un anno la durata degli studi secondari? “È per adeguarci a ciò che avviene in altri paesi”. Bambini e ragazzi non sanno più tenere una penna in mano? “Bisogna far posto alle risorse offerte dagli sviluppi della tecnologia”. E via seguitando. Che poi le risposte fornite siano al più un sentito dire senza fondamento non pare sia importante.  Chiunque abbia una pur sommaria conoscenza dei sistemi educativi in Europa sa bene che il loro funzionamento risponde a differenze anche radicali nelle politiche scolastiche. Perché dovremmo pensare che l’Europa ci riservi richieste che si guarda bene dal presentare ad altri paesi? Chi sostiene che il percorso primario-secondario è generalmente di dodici anni, mentre da noi è di tredici, e che anche in Italia si dovrebbe tendere a una diminuzione del numero di anni dedicati all’istruzione sequenziale, ignora che la tendenza in altri paesi d’Europa va spesso nella direzione contraria. Non solo in molti paesi l’istruzione primaria ha inizio a sette anni (quindi, aggiungendo dodici anni di scuola primaria e secondaria si arriva a diciannove), ma è in atto una generale revisione in senso formale delle istituzioni per l’infanzia. I bambini a sette anni hanno già fruito di vari anni di educazione scolastica, sempre meno orientata, anche nei primissimi anni di vita dei bambini, nel senso della custodia e sempre più in quello dell’istruzione. Perché dovremmo prendere per buone tutte le proposte dei produttori e dei venditori di dotazioni tecnologiche, senza preoccuparci di verificare sul campo (ciò che, quando stato fatto, ha fornito indicazioni tutt’altro che esaltanti) gli effetti sullo sviluppo psicofisico degli allievi a breve e a medio termine, nonché a lungo termine  quelli sulla popolazione adulta? Potrei continuare a considerare una casistica che mi porterebbe a smentire il proposito dal quale ero partito in apertura di questo intervento, quello di sviluppare considerazioni rivolte ai tempi lunghi. E, invece, è proprio ciò che occorre: bisogna uscire dalla penombra in cui vagano i protagonisti dell’educazione.

Incominciamo col prendere atto che l’educazione formale indirizza oggi la sua proposta a strati di popolazione che richiedono una continua ridefinizione sul piano sincronico e su quello diacronico. Da un punto di vista sincronico va notato che nel volgere di un tempo relativamente breve (limitiamoci a considerare l’ultimo secolo) la fruizione dell’educazione scolastica è diventata una dimensione normale nello sviluppo di bambini e ragazzi e che col volgere dei decenni è venuto accrescendosi il numero di anni riservato all’istruzione sequenziale. Se aggiungiamo all’educazione formale di cui si fruisce nei primi due decenni di vita le opportunità di cui possono fruire gli adulti, si arriva a concludere che l’educazione interessa ormai tutte le fasce d’età e tutti gli strati sociali. Non solo: nel tempo che stiamo considerando, la speranza di vita si è venuta dilatando, e oggi si aggira sugli ottantacinque anni. In pratica, ciò comporta che i bambini e i ragazzi possono sperare su una durata della vita che supera di una trentina d’anni quella delle tre generazioni precedenti. Se accettiamo di considerare l’educazione come una funzione essenziale per l’adattamento alla vita, dobbiamo concludere che nei due primi decenni, quelli in cui per lo più si colloca l’educazione sequenziale, devono essere poste e premesse per condizioni di esistenza che si evolveranno molto più a lungo (oltre che più celermente) di quelle che oggi si presentano. All’incremento della durata della speranza di vita ha corrisposto nell’ultimo secolo una rapidissima crescita e trasformazione dei repertori conoscitivi. Ciò ha comportato non solo che nove conoscenze si sono aggiunte a quelle che già erano disponibili, ma che le conoscenze già disponibili hanno subito processi che ne hanno profondamente modificata la rilevanza e la collocazione nel quadro della cultura. Oggi sarebbe impensabile pretendere che il repertorio conoscitivo di un bambino o di un ragazzo riproduca quello dei genitori. Sappiamo in che modo ha inizio l’educazione sequenziale, ma non abbiamo idea di quale sarà lo scenario in uscita.

Da quest’ultima osservazione derivano conseguenze per tutti gli altri protagonisti dell’educazione, primi fra tutti gli insegnanti. Le abbiamo approfondite sul numero di dicembre di Tuttoscuola.

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