La professione degli insegnanti: l’unità e il cattivo infinito
Cercando di orientarmi nella selva di disposizioni che in questi primi decenni del secolo si inseguono e si affastellano nel vano tentativo di configurare un percorso sensato per l’accesso all’insegnamento, mi sono ricordato che nell’ancient regime non si poneva il problema della selezione dei funzionari che avrebbero dovuto assumere cariche di responsabilità nell’ambito dell’amministrazione del bel Regno di Francia: le famiglie che aspiravano ad elevarsi nella scala sociale investivano un patrimonio consistente per acquistare una carica che avrebbe consentito a un giovane rampollo di essere compreso nella nuova classe che si andava affermando, quella della nobiltà di toga. Tanto per fare un esempio, all’inizio delle fortune (ahi lui, anche delle disgrazie) di Nicolas Fouquet, che fu sovrintendente alle finanze di Luigi XIV, ci fu l’acquisto, da parte di suo padre, della carica di relatore sui ricorsi. Si chiederanno i miei dodici lettori che cosa abbia a che fare la compravendita delle cariche nell’ancient regimecon i percorsi d’avvio alla professione degli insegnanti. Sono trascorsi alcuni secoli da quando i modi per acquisire i pubblici uffici cui ho fatto riferimento sono stati sostituiti da regole che precisavano i requisiti di moralità e competenza considerati necessari per corrispondere a intenti di pubblica utilità. Ciò è accaduto per le diverse professioni destinate ad assicurare un servizio al pubblico, ai diversi livelli e nei diversi settori in cui tali professioni si sarebbero esercitate. L’insegnamento non ha fatto eccezione. I diversi sistemi scolastici hanno disciplinato l’accesso all’insegnamento precisando quale dovesse essere il corredo professionale di cui i candidati dovevano disporre, sul piano culturale e su quello di dei comportamenti educativi.
Così è stato anche in Italia. Possiamo ripercorrere la storia del nostro sistema scolastico dopo il raggiungimento dell’Unità nazionale seguendo il modificarsi dei profili richiesti per accedere all’insegnamento. O, almeno, ciò era possibile fino a un paio di decenni fa, quando la normativa ha incominciato a essere colpita da una sorta di ballo di san Vito, che ha cambiato di continuo le regole. Vedremo più avanti che cosa ne sia derivato per il profilo degli insegnanti. Ma, intanto, bisogna prendere atto della grande incertezza che domina fra quanti vorrebbero intraprendere la professione dell’insegnante. Cercano di sottrarsi all’incertezza i molti candidati al lavoro nelle scuole che si affannano per affiancare ai corsi accademici (peraltro estremamente variabili fra le diverse sedi) corsi e corsetti in grado di rilasciare certificazioni che possano essere utilizzate per rendere più agevole l’accesso alla professione. L’accreditamento(la parola va intesa nel significato contabile che ha assunto per essere stata utilizzata nell’ambito del modernismo organizzativo che ha sostituito i criteri precedentemente in uso per descrivere il percorso negli studi) corrispondente al titolo di laurea posseduto può essere incrementato acquisendo competenze aggiuntive presso istituzioni riconosciute idonee, non si capisce su quali basi, a intervenire in un settore così critico com’è quello dell’educazione.
La conseguenza più evidente del disordine che domina i percorsi di avviamento alla professione è il crescere di un’offerta disordinata e costosa. Per rimpolpare un curricolo troppo scarno e frantumato ci si deve rassegnare a spendere somme consistenti, che si aggiungono ai costi che normalmente si sostengono per seguire il ciclo di studi che consente di ottenere una laurea. Le stesse università, che pure recano la responsabilità degli studi già compiuti e che ne hanno certificato la positiva conclusione, vedono nello svolgimento di corsi per chi vuole intraprendere la carriera di insegnante un modo per acquisire risorse. Gli studenti (ovvero, nella gran parte dei casi, le loro famiglie) si devono sobbarcare l’onere di corsi volti a ottenere l’abilitazione all’insegnamento, ai quali si aggiungono altri corsi, che si presentano come orientati a soddisfare specifiche esigenze professionali. L’analogia con l’acquisto di cariche nell’ancient regimeappare, se si considera l’esborso che è necessario subire per dedicarsi all’insegnamento, tutt’altro che marginale.
Ma non è la compravendita dei crediti l’aspetto che segnala in modo più evidente il deterioramento subito dalla cultura della scuola. Ciò che più turba è la disinvoltura con la quale una quantità di soggetti si propone come idonea a operare nel settore della qualificazione professionale degli insegnanti. Potremmo supporre che per svolgere un corso professionale occorra che sia presente almeno una delle seguenti condizioni:
- una tradizione consolidata di studi e di ricerche sui modi in cui sono stati e sono affrontati in condizioni e in tempi diversideterminatiproblemi dell’educazione scolastica;
- un’accumulazione di esperienze accuratamente descritte nelle diverse fasi del loro svolgimento, dalla individuazione delle esigenze che richiedevano specifiche soluzioni organizzative e tecniche, alla progettazione e realizzazione degli interventi, alla rilevazione degli esiti conseguiti;
- un impegno prolungato nella ricerca educativa, dal quale sia derivato un significativo incremento delle
Sono condizioni che dovrebbero potersi osservare in ambienti che si distinguono per la qualità della cultura dell’educazione. Sembra invece che ormai chiunque possa impalcarsi a esperto di problemi educativi, combinando elementi autobiografici (spesso idealizzati nel trascorrere del tempo) alle suggestioni del momento e ignorando che la cultura dell’educazione è parte importante di quel canone occidentale che Harold Bloom ha efficacemente delineato, seguendone lo sviluppo fin dall’età omerica. La crisi nella quale i sistemi educativi sono immersi corrisponde al progressivo dissolversi del canone dell’educazione, sospinto non si sa dove dal moltiplicarsi d’interessi contingenti. Se l’educazione europea, così come è venuta delineandosi dalla metà del secondo millennio, ha tratto ispirazione dal pensiero di Erasmo, di Vives, di Vergerio e di tanti altri studiosi che hanno riversato sull’educazione i risultati delle loro riflessioni; se nei secoli successivi studiosi come Comenio, Locke, Rousseau hanno conferito sistematicità ai diversi aspetti dell’educazione ponendo le basi per una comprensione sempre più approfondita delle esigenze degli allievi con riferimento al mutare delle condizioni di vita; se – fra Ottocento e Novecento – l’educazione ha potuto offrire in autonomia un contributo alla definizione di nuovi profili per le popolazioni d’Europa (e degli altri paesi di cultura europea), ci troviamo oggi a dover subire le indicazioni di un senso comune sostanzialmente dipendente dai mezzi per la comunicazione sociale e, ovviamente, funzionale agli interessi di chi dispone del controllo di tali mezzi. Abbiamo di fronte indicazioni pedagogiche grottesche, delle quali si distingue solo l’intento ideologico, rivolto ad affermare l’egemonia delle organizzazioni produttive nel definire la qualità delle relazioni sociali e politiche. È inutile dire che una simile pedagogia degli affari non ha nulla a che fare col canone dell’educazione occidentale, e anzi si contrappone a esso in nome del superamento di quanto ha valore d’identità e di testimonianza di quelle che, in una logica di globalizzazione, sono considerate comunità locali.
La pedagogia degli affari segue, appunto, la logica degli affari. E la segue senza grandezza, senza chiedersi in che modo l’educazione passa concorrere ad assecondare quell’adattamento allavita che dovrà svilupparsi nei molti decenni che seguono la conclusione dell’educazione sequenziale. L’educazione è sospinta al conseguimento di traguardi a breve termine, dai quali esperti sprovveduti ritengono possano derivare benefici per il sistema produttivo. Non ci si chiede se le scelte che sono compiute resisteranno il tempo necessario perché una leva di allievi concluda, non dico l’intero ciclo dell’istruzione primaria e secondaria, ma anche solo uno dei due cicli. Eppure, qualcosa si sarebbe dovuta imparare dall’esperienza. Assistiamo alla rapida ascesa e all’ancora più rapida dismissione di proposte per l’apprendimento degli allievi che non riusciranno mai a dimostrare quell’utilità invocata e affermata come certa quando si è trattato di imporle alle scuole. Quel che gli esperti delle organizzazioni produttive non hanno capito è che i criteri interpretativi dei quali si compone la loro cultura possono (forse: non me ne intendo abbastanza per esprimere un giudizio) consentire scelte appropriate nei settori in cui hanno avuto origine, ma sono del tutto incoerenti con le esigenze dell’educazione. Siamo di fronte a una contrapposizione drammatica fra concezioni educative centrate sui tempi brevi e concezioni che guardano ai tempi lunghi. Se seguiamo l’evoluzione dei cambiamenti intervenuti nei sistemi educativi durante il Novecento, osserviamo che le proposte che di volta in volta apparivano esprimere al meglio intenti di modernizzazione sono state rapidamente abbandonate, mentre – con vari adattamenti – resistono gli aspetti dell’educazione dei quali sia più o meno evidente la prossimità al canone educativo occidentale.
L’interpretazione dei fenomeni educativi è sempre complessa. Anzi, lo è sempre di più. È una buona ragione per non stabilire relazioni lineari tra aspetti dello sviluppo che si presentino in successione di tempo, anche quando sembri ragionevole collegare l’evento che precede a quello che segue. E ciò per la buona ragione che i fattori di variazione sono talmente numerosi che si peccherebbe di semplicismo se volessimo fornire spiegazioni semplici e uniformi a fenomeni che non lo sono. Ma, soprattutto, occorre evitare di utilizzare formule argomentative centrate su affermazioni che suggeriscano necessità. Potrei affermare, e in molti casi dimostrare, che l’attività degli insegnanti è stata, all’interno di sistemi mal regolati e inquinati dal potere di proposta di esperti incompetenti (perdonate l’ossimoro!), una condizione per conservare l’unità del sistema educativo. Se è così, c’è ragione di preoccuparsi. Le misure che hanno investito, e seguitano a investire, il profilo degli insegnanti, avranno con ogni probabilità l’effetto di disgregare quel tanto di unità che ancora caratterizza l’educazione scolastica e il profilo di chi, per professione, concorre a realizzarla. Il perseguimento d’intenti che si realizzino nei tempi lunghi e siano in grado di imprimere un carattere ai processi di adattamento della popolazioni al mutare delle condizioni di esistenza suppone che si operi condividendo almeno alcuni aspetti della proposta educativa. Non si tratta di perseguire un improbabile unanimismo nelle pratiche e nelle finalizzazioni educative, ma di non lasciare che sia il caso a decidere la sorte dei bambini e dei ragazzi che intraprendono il percorso dell’educazione formale. L’unità della professione degli insegnanti non confligge con la diversità degli elementi culturali (e, entro certi limiti, tecnici) di cui sono in possesso. Le differenze possono comporsi (e non è una mia opinione, ma è la conclusione cui si perviene riflettendo sulla storia dell’educazione) in un quadro che si distingue per l’unità degli intenti, mentre non ci si può attendere che ciò accada quando il percorso per l’avvio alla professione sia impostato come la sommatoria di contributi parziali e incoerenti fra loro. Prendo a prestito da Hegel la sua idea del cattivo infinito, che mi sembra esprima in modo efficace la pretesa di costruire un profilo coerente assemblando segmenti che (anche ammettendo non siano il frutto di elucubrazioni solitarie) seguono linee teoriche e argomentative che sarebbe arduo (e il più delle volte inutile) comporre.
Occorre impegnarsi per ricostruire l’unità della professione degli insegnanti. Sono convinto che ciò sia possibile a condizione di recuperare gli elementi di quel canone educativo occidentale che sta soccombendo sotto il maglio della globalizzazione. Oggi le grandi opere che hanno sostenuto lo sviluppo del pensiero educativo sono sempre meno lette (è un eufemismo per dire che sono sostanzialmente ignorate). Se scorriamo i titoli sugli scaffali di una libreria non potremo che prendere atto della scomparsa dei testi sui quali si fonda la cultura pedagogica. Un evento del tutto inconsueto è stato la pubblicazione, poche settimane fa, da parte delle Edizioni Anicia,di una traduzione, introdotta e commentata, di Emilio, o dell’educazione: quanti hanno letto, e riflettuto, su questo libro? Quanti sono consapevoli che buona parte dei problemi con i quali ancora dobbiamo misurarci sono nitidamente presentati nelle pagine di Rousseau? In un tempo in cui si propone l’alternanza scuola-lavoro come la condizione per congiungere l’apprendimento teorico con le esperienze pratiche, quanti hanno letto i Pensieri sull’educazione di Locke? Potrei continuare a formulare domande siffatte, il più delle volte retoriche. Preferisco pensare a qualcosa che consenta di uscire dalla penombra.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di gennaio di Tuttoscuola, clicca qui e abbonati ai nostri servizi per non perdere nemmeno un numero!
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