ITS/3. La via italiana all’istruzione terziaria non accademica

L’Italia, come si è spiegato qui, ha avuto diverse occasioni per cambiare marcia (sperimentazione del 1969-70, programmi Brocca del 1988-90, proposte e progetti agli inizi del 2000 naufragati insieme allo pseudo doppio canale introdotto dalla riforma Moratti nel 2003), ma di volta in volta hanno finito per prevalere da una parte le resistenze spesso convergenti delle forze conservatrici (politiche, sindacali e burocratiche), e dall’altra il carattere fortemente autoriproduttivo e inerziale – nel senso fisico di tendente a procedere a velocità costante, evitando le accelerazioni – di un grande apparato molto istituzionalizzato, con oltre un milione di dipendenti.

Certo, gli ITS (o Accademie, o come si chiameranno) sono importanti, sono strategici, ma per ora e per qualche anno resteranno una enclave assolutamente minoritaria in un panorama dominato dalle università. Lo stesso disegno di legge che li ridefinisce e riorganizza, approvato dalla Camera nello scorso mese di luglio, ora in discussione al Senato, ipotizza un target di 50.000 nuovi studenti e 42.000 diplomati per il 2026, come spiega bene Arduino Salatin, che fa parte del gruppo di studio sugli ITS che lavora per il Ministro Bianchi, in un dettagliato articolo pubblicato nel numero di ottobre di Tuttoscuola. Da questo punto di vista la Germania è lontana, anche perché le Fachhochschulen hanno alle loro spalle centinaia di migliaia di giovani lavoratori-studenti in apprendistato professionalizzante, mentre gli ITS hanno come principale bacino di alimentazione gli studenti a tempo pieno degli istituti tecnici, che hanno progressivamente perso la loro vocazione professionalizzante originaria e aumentato la valenza di percorsi generalisti, aperti a qualunque scelta universitaria, simili in questo ai licei.

Per porre su basi più solide le prospettive di sviluppo di un forte sistema di istruzione terziaria non accademica ci sarebbe bisogno in Italia di un intervento di ridisegno dell’istruzione secondaria di tipo tecnico e professionale (complessivamente il 49% degli iscritti contro il 51% di liceali). Si potrebbe, per esempio, ridurre a quattro anni la durata dei corsi rafforzando la formazione di base e rinviando quella tecnico-professionale specifica alla fascia formativa successiva, quella degli ITS triennalizzati, nei quali potrebbero essere utilizzati e valorizzati i molti docenti di materie tecniche che attualmente insegnano negli ultimi anni degli istituti tecnici e professionali.

Una proposta del genere non sarebbe neanche una novità assoluta perché fu avanzata da un gruppo di lavoro nominato dal ministro Moratti, del quale facevano parte Giuseppe Bertagna e Norberto Bottani, in vista degli Stati Generali della scuola del dicembre 2001. Solo che il taglio di un anno riguardava anche i licei, e la proposta fu subito spazzata via dai fautori della quinquennalità dei licei, capitanati nel governo di centro-destra da AN (Alleanza Nazionale). Se la si riprendesse in ipotesi dal 2021-2022, e considerato il fatto che gli attuali iscritti in prima avrebbero il diritto di arrivare fino alla quinta, la quadriennalizzazione non entrerebbe in vigore prima del 1° settembre 2026.

All’obiezione che ai diplomati tecnico-professionali quadriennali verrebbe preclusa l’iscrizione all’università si potrebbe rispondere prevedendo un quinto anno solo per chi vuole conseguire il diploma di maturità, con relativo accesso all’università (ma anche agli ITS). Oppure quadriennalizzando anche i licei, come già si sta facendo da qualche anno in via sperimentale. Questa sarebbe davvero una grande riforma, paragonabile all’unificazione della scuola media del 1962, che inaugurò un’intera stagione politica, quella del centro-sinistra, con l’ingresso dei socialisti nel governo. Sapremo presto se il quadro politico consentirà un’operazione di questa portata, o se prevarranno ancora una volta i conservatori (che in Italia sono un partito trasversale) e la continuità inerziale del Grande Apparato. (O.N.)

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