Quest’anno le domande per partecipare al ‘Prin’, il piano che finanzia i progetti universitari di interesse nazionale, dovranno esser redatte solo in inglese anche se, “a scelta del proponente, può essere fornita anche un’ulteriore versione in lingua italiana”. Inglese obbligatorio e italiano facoltativo, insomma.
La decisione del Miur ha suscitato la protesta del professor Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, che l’ha definita “una follia”, e una “scelta suicida e autolesionista”. E anche illegittima, sostiene, perché la Corte Costituzionale, con la sentenza numero 42/2017, aveva “definito le regole d’equilibrio tra inglese e italiano nell’università” e affermato che la “centralità costituzionalmente necessaria della lingua italiana si coglie particolarmente nella scuola e nelle università”.
Di qui la richiesta di un incontro urgente con la ministra Valeria Fedeli, che ha accettato di ricevere una delegazione della Crusca nei prossimi giorni. Tra le ipotesi in discussione c’è anche quella di tornare alla formula adottata nel bando Prin del 2012, che prevedeva che i progetti fossero presentati nelle due versioni, quella in italiano e quella in inglese.
L’opposizione alla ‘English dictatorship’, in Italia come in tutto il mondo non anglofono, non è alimentata soltanto da ragioni di tipo politico (nazionalismo, salvaguardia delle radici storico-culturali, rifiuto dell’egemonia degli USA nel mondo cosiddetto ‘occidentale’): ci sono sfumature e finezze che possono essere colte soltanto utilizzando la lingua madre, come sanno bene gli studiosi di linguistica e i traduttori di testi non solo letterari.
In un articolo che compare nel settimanale The Economist del 6 gennaio 2018, dedicato ai neologismi english based che si diffondono nel mondo, si riconosce la rilevanza della questione, e si giunge a sostenere che nel confronto tra i popoli non anglofoni, costretti a utilizzare l’inglese come lingua veicolare, e quelli anglofoni, che non hanno alcuna necessità di apprendere altre lingue, a perderci sono quelli anglofoni, ai quali resta così precluso l’accesso alla ricchezza e ai “segreti culturali” di altre lingue: “Perhaps the Anglophones are the real losers in this exchange”.
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