Elogio del tempo vuoto, anzi pieno (ma di "non scuola")

Ha suscitato interesse e vivaci reazioni, pro e contro, l’articolo di Pietro Citati apparso sulla “Repubblica” di giovedì 12 febbraio col provocatorio titolo “Elogio del tempo vuoto”. Un raffinato minisaggio, di quelli ai quali Citati ci ha abituati, scritto con penna lieve, sul filo della memoria autobiografica, per contestare l’efficacia pedagogica di un modello di scuola troppo pieno di contenuti e di compiti per bambini che avrebbero bisogno, invece, di più tempo per parlare con i genitori, giocare, leggere, sognare.
Un articolo che potrebbe apparire controcorrente, dunque, e per giunta pubblicato su un quotidiano schierato a favore del “tempo pieno” di 40 ore 40, e con un ministro che ha appena ripetuto che per il tempo pieno “non cambia nulla”. Come si spiega? In realtà Citati, come mostra la sua replica ad una indignata lettrice “tempopienista”, considera il tempo pieno “giustificatissimo e necessarissimo” nel caso che entrambi i genitori lavorino, ma inutile e controproducente se corrisponde ad un disimpegno educativo da parte di uno o di entrambi i genitori, quando essi abbiano la possibilità di stare di più con i figli, di dialogare con loro, di riempire il loro tempo di vita seguendoli negli studi e negli interessi, ma consentendo loro anche spazi e occasioni per la riflessione, la fantasia, la creatività individuale, perfino l’ozio (ma nel significato erasmiano di astensione dal conformismo e dalle mode).
In realtà quello di Citati è un appello ai genitori (quelli che possono, che non sono pochi) perché si occupino di più dei figli, e non li mandino “al tempo pieno, e poi alle lezioni di nuoto, di tennis, di danza, di alpinismo, di yoga, di tedesco, di canottaggio, di volo, pur di levarseli di torno“. Si avverte un poco, nelle parole di Citati, la malinconia di chi si sente impotente di fronte al corso degli eventi, ma egli, in forma e con una sensibilità diversa, più letteraria, pone lo stesso, importante problema sollevato dal sociologo Edgar Morin: ai giovani serve una testa “ben fatta“, non “ben piena“.